Nel nitore di una chiesetta che pare quasi ortodossa, color del cielo all’esterno, spiccano sei per lato, strette e oblunghe, le tavole della Via Crucis. Umana, molto umana, perché ricamata, perché quel groviglio di fili cuciti meticolosamente e meticolosamente ingarbugliati e incorniciati da Maria Lai, mette in mostra senza sconti il groviglio di sentimenti che ogni Via Crucis è: quella mitologica del Cristo, deriso re degli uomini, e quella che a ognuno di noi capita di vivere, prima o poi.
Quel che aiuta nella contemplazione sono il silenzio quasi perfetto all’interno della chiesetta nel primo meriggio e il vuoto. Ho l’impressione di essere l’unica persona in giro per Ulassai alle 14.22 del 25 agosto 2024. Un santo scuro di pelle e una Madonna, i miei unici silenziosi compagni, oltre al Cristo crocifisso in silenzio e un altro steso sotto la Madonna, di fronte alle reliquie di un altro santo. Poca cosa. Questi segni sobri delicatamente ripercorrono e fanno nostro, con quel filo bianco che arriva proprio all’altezza delle nostre mani, il calvario del Cristo. Sono completamente laica e detesto cordialmente il fatto che i cattolici adorino le sembianze di un uomo infilzato sopra a uno strumento di tortura. Eppure, la leggerezza del filo bianco, la storia che racconta appena intellegibile, quello spazio oscuro a cui dobbiamo avvicinarci per capire, ci richiedono tutta la poesia di cui abbiamo bisogno per appropriarcene. Grazie, Maria Lai.
Esco dalla chiesa, alzo lo sguardo e incrocio il cartello stradale rovesciato di Maloberti. È una cartolina, LA cartolina di Ulassai, e un grande omaggio d’amore a Maria Lai. Siamo tutte debitrici e debitori a Marcello per questo splendido regalo, che rivoluziona questo micro centro urbano senza sbavi retorici. Grazie, Marcello!
Cercare di raggiungere i lavori di Maria Lai col navigatore attraverso Ulassai è frustrante e spesso controproducente. Vicoli sassosi, balaustre domestiche e curve precipitose sbalestrano l’avventata conducente che guida per i vicoli come per le calli veneziane. Le opere di Maria Lai si presentano come e quando vogliono loro, con ritmi e tempi propri a prescindere dagli sforzi, o all’improvviso attraverso bocca di sardi gentilissimi. W gli umani, sempre.
Dopo un giro dell’oca alla ricerca della Lavagna che avevo visto dalla Stazione dell’Arte, arrivo davanti al Gioco dell’Oca in piazza Barigau. È uno scherzo del destino e trovarlo ora ha senso, mentre il primo incontro con quest’opera semi abbandonata in mezzo a una piazza incrostata sotto a un canyon verde era stato piuttosto deludente. Trovare i lavori della Lai richiede fede e umiltà e perdersi varie volte per trovarli. Riprovo.
È dietro il Lavatoio decorato da un telaio sospeso della Lai e una scultura di Nivola che riempio la borraccia con acqua fresca. È un vigile del fuoco che mi indica come raggiungere la Lavagna, accanto alla scuola a piedi, 50 metri, la macchina la parcheggio qui. Pronti via. Persa ma trovando cespugli di more dolcissime in via Cocoreddu e la splendida ragazza che mi aveva fornito indicazioni prima. La Stazione dell’Arte ora è davanti a me, quindi la lavagna un paio di vie sopra?
Maria Lai insegna pazienza e tenacia. Ho scoperto che la compagnia del gas qui si chiama Medea. Ho trovato anche fichi dolcissimi e turisti francesi spaesati, ma la Lavagna no. L’ho vista dalla Stazione dell’Arte, mi basta. “You can’t always get what you want,” dice Mick Jagger, “you get what you need.” Here we go, more e fichi deliziosi, davvero, niente è buono come colto e mangiato. I francesi sono scomparsi, forse erano solo un incanto della mia mente. È apparso un altro fico dai frutti chiari, grandi e gustosi stavolta, non resisto alle tentazioni, due discese sbagliate e raggiungo il retro della scuola. Non si passa oltre. Tornando mi chiedo se la macchina la ritroverò. Procedo.
Qui fichi senza frutti, solo profumo, poi via XX Settembre ancora e poi una via restaurata, allegra, introdotta da uno splendido edificio intero e cadente, pietra e legno, in piedi sull’angolo come una sentinella: via 4 Novembre, è lei. In fondo, prima della scuola, una parete coperta di tessere quadrate di ardesia, ho trovato la Lavagna. Il navigatore dice impossibile stabilire una connessione. La calligrafia infantile sulla lavagna dice: l’arte ci prende. Il navigatore dice arrivato.
Sì, sono arrivata, e ancora una volta l’arte di Maria Lai mi ha preso, anzi mi ha catturato. Sono un’allieva diligente, le ho viste quasi tutte le sue installazioni in giro per Ulassai, dopo aver diligentemente visitato la Stazione dell’Arte, dove una guida orgogliosa ed entusiasta racconta i suoi lavori e ci fa sfogliare una copia del suo libro Il dio distratto.
Per ultimi cerco i libretti murati. Ora è chiaro che il mio è un pellegrinaggio, un atto di devozione, all’arte e a chi l’ha portata avanti così strenuamente. Sforzi titanici che postumi diventano leggenda. Di Legarsi alle montagne rimane un video, dei suoi scritti non ancora una raccolta per diatribe ereditarie. Un altro nitore, intercettato per sbaglio alla ricerca dei libretti murati. Ne rimangono alcuni, piccini, smaltati, semplici nelle loro dichiarazioni: il mestiere realizza qualcosa di pratico.
Un altro nitore, dicevo, è quello dei muri del CaMuC dove si trova la Biennale di Ulassai curata da Gianni Murtas in un piccolo edificio, se si può dire razionalista, nel centro di Ulassai, aperta fino al 6 ottobre. Nella mostra di giovani sardi spiccano gli arazzi di Marco Useli e le pitture di Siro Cugusi e Veronica Paretta. Poi un’impeccabile finestra che si apre sui monti e, all’improvviso, dietro un picco il mare. Siamo in Sardegna innanzitutto.