Venezia premia giustamente Almodóvar con il suo primo lungometraggio girato in America e in lingua inglese
– Quest’anno làtiti peggio di un Messina Denaro.
– Lo so. Imperdonabile. Ma confesso che il caldo del Lido mi ha steso. A memoria di tutti gli accreditati, nessuno si ricordava una Mostra del Cinema così torrida. Notti insonni, code sotto il sole, scarsità di acqua fresca, e sbronze perenni per vivere in quell’apnea tutta speciale tipica di un festival di cinema, dove meno percepisci il confine tra realtà e finzione, e più ti diverti e credi che sia tutto vero… Ovvio che la prima vittima di tutto questo è il lavoro. Ho anche visto molti meno film, per infilarci almeno due delle quattro miniserie complete per la tv inserite nel programma, della durata di otto ore ciascuna… E visto che hai nominato Messina Denaro, no, non l’ho visto il film a lui dedicato.
– “Iddu”? Di Piazza e Grassadonia? E come mai? Era in concorso!
– Sì, ma a Venezia i concorsi sono almeno quattro, e se, come me, hai la fortuna di poter scrivere di quello che ti pare, basta incastrare nel carnet un titolo programmato in una sezione diversa, che qualcosa ti salta per forza.
– Però è quasi passata una settimana intera dalla consegna dei leoni, e ti sei ben guardato dal farti sentire.
– Ti chiedo scusa. Tornando in auto, ho avuto un contrattempo che mi ha costretto a restar fuori una notte in più, e il ritardo è caduto a cascata su tutto quello che mi aspettava da fare al rientro. Comunque ora eccomi qua, per soddisfare, magari in maniera più essenziale e stringata (che male non fa) ogni tua curiosità sui titoli che sono riuscito a vedere e di cui non ti ho ancora parlato le due volte scorse.
– A questo punto comincerei con i leoni. L’oro ad Almodóvar. Sei contento?
– Contentissimo. Raramente il parere delle giurie corrisponde alle mie preferenze, ma stavolta è accaduto il miracolo.
– Dunque è così bello, “The Room Next Door”?
– Uno splendore assoluto. Ormai te ne avranno già parlato tutti, e avrai letto colonne su colonne in corpo 11 dedicate all’argomento centrale del film, l’eutanasia. Ma come sai non voglio piegarmi alla consuetudine di privilegiare, nella considerazione critica di un’opera cinematografica il contenuto assai più che la forma. Attendevo il nostro amato Pedro al delicato appuntamento con il suo primo lungometraggio girato in America e in lingua inglese, curioso di come il suo occhio si sarebbe appropriato di un paesaggio urbano e sociale tra i più fotografati nel cinema. L’adesione dello sguardo di Almodóvar alla fotogenia di New York non è una riappropriazione per sovrapposizione, ma una genuina rigenerazione di spazi, volumi e colori che fa coincidere con un miracolo visivo stupefacente i suoi peculiari colori vivaci con quelli pastosi e luminosi di Edward Hopper. Tilda Swinton e Julianne Moore sono grandiose come due eroine della Lirica, la scrittura trabocca di intelligenza e ironia, e dallo schermo emana un abbraccio al mondo, un invito a scegliere di vivere la vita nella sua pienezza. Le loro parole non suonano come quelle dei dialoghi dei film americani, ma evocano quella universalità della Grande Arte che la Globalizzazione purtroppo non è mai riuscita ad emulare e assimilare. Alla faccia di chi considerava Almodóvar un autore ormai involuto e incapace di rinnovarsi. Brava Giurìa!
– E dell’argento “The Brutalist” cosa mi dici?
– Non l’ho visto. Come ti ho detto, con una griglia così affastellata di film lunghi oltre le tre o le quattro ore (vedi il nuovissimo “Phantosmia” di Lav Diaz: 245 minuti di sublime bianco e nero), qualcosa va sacrificato. Ammetto di non essere un fan sfegatato del cinema di Brady Corbet, perciò l’ho scartato a cuor leggero. Poi invece tutti a dire che è un capolavoro. Lo guarderò quando uscirà al cinema, e ti farò sapere. Notevole, invece, il Gran Premio: “April” della regista georgiana Dea Kulumbegashvili: ovviamente tutti ne hanno parlato soltanto per il “tema forte” (l’aborto…), senza neppure sognarsi di mettere in evidenza l’austerità, la sublime severità formale di un cinema così impegnativo: un grande film, forse anche ostico, come ogni festival serio dovrebbe proporre nel concorso principale.
– Dove c’era anche “Queer” di Luca Guadagnino, rimasto però a bocca asciutta.
– Che significa? Spesso i film senza premi sono proprio quelli che ti restano di più in cuore. Non parlo di tanti titoli piuttosto inutili di cui il concorso abbondava (quest’anno più del solito, ahimè): non li cito perché voglio essere gentile. Ma “Queer” sarà senz’altro il titolo di questa Mostra che in futuro ricorderò con maggiore nostalgia, come fu per “Blonde” di Andrew Dominik nel 2022. Lo hanno capito in pochi? Chissenefrega. È infatti un film che si lascia capire da pochi. Ma non lo fa apposta. Sceglie di rappresentare sullo schermo non tanto le pratiche del desiderio omoerotico, quanto l’essenza di cui quel desiderio è composto: la febbrile insicurezza nell’entrare in un locale di incontri, quella fragilità emotiva che rischia di schiantarti al suolo e devi stare più attento a non fare rumore che al vuoto d’aria che ti si crea nello stomaco se la preda si ritrae indifferente… Tutto questo nel cinema di Guadagnino si fa inquadratura, panoramica, tagli in asse di pochi frame, fuori da ogni regola canonica del montaggio. La seconda parte, concentrata sull’uso degli stupefacenti, non si perde nei consueti rivoli di un immaginario ipotizzato, non esperito direttamente, come ci mostrano le mille e mille sequenze di trip viste in altrettanto cinema e altrettanta televisione. No. Con la droga il tempo muore. E al cinema il tempo che muore diventa il tempo morto della percezione compromessa dalle sostanze assunte. Forse al cinema non si era mai visto prima nulla di simile, se non nel meraviglioso “Drugstore Cowboy” di Gus Van Sant, dove non a caso compare in carne ed ossa William Burroughs, autore del “Queer” da cui Guadagnino ha tratto questo suo stupefacente ultimo lavoro affidando il ruolo dello scrittore a Daniel Craig. Ovvio che certe cose sui giornali le scrivono in pochi. Tutti preoccupati, invece, perché vedono che 007 lo prende nel sedere…
– Ahahah, sei tremendo. E “Joker” lo hai visto?
– Certo, ti pare che me lo perdevo? Era atteso dalla massa di spettatori e critici come “il” film di Venezia 81, ma si è risolto in una delusione sonora. Rispetto alla bomba che fu il primo, vittorioso con l’oro a Venezia, questa “Folie à deux”, come recita il sottotitolo, si affloscia in una inutile sequela di numeri cantati e danzati, filmati senza eccessiva fantasia, e generatori di una noia inerte che è stata per tutti una doccia fredda. Venezia 81 verrà ricordata per ben altro, puoi starne sicuro. Come la Serie “M il Figlio del Secolo” tratta dall’omonimo libro di Scurati e diretta con l’agilità e l’impertinenza di uno scherzo sinfonico di Prokofiev da Joe Wright: otto ore volate come fossero un treno in corsa per non mancare di arrivare in orario! Spettacoloso. Sensazionale. Esaltante. Con un Luca Marinelli nel ruolo più impervio e riuscito della sua carriera, almeno fin qui: un Mussolini istrionico, ciarlatano, carismatico e abilissimo stratega, che entrerà a far parte dell’immaginario di tutti gli italiani, come il Leonardo da Vinci di Philippe Leroy o il Commissario Maigret di Gino Cervi.
– E la serie di Alfonso Cuarón?
– Vista tutta anche quella. “Disclaimer”. Tratta da un romanzaccio, come almeno credo che sia, contiene una storia piuttosto brutta e greve, che tuttavia ti avvince per otto ore grazie alla maestria registica di Cuarón e alla perfezione chimica di tutti gli interpreti, compresa una Cate Blanchett che sembra uscita dalla fine di “Tár”, il film sulla direttrice d’orchestra che aveva portato sempre a Venezia nel 22, e sbarcata con lo stesso identico personaggio (qui però è una scrittrice) in quest’altra storia a tinte forti di rancori, vendette e una massiccia dose di sesso.
– Bilancio conclusivo?
– Ci stavo arrivando: ottimo. Un’annata felice. Film belli e brutti nella media delle quantità annuali riscontrabili anche a Cannes o in altri Festival che a ben guardare, poi, non sono così importanti come la Mostra di Venezia. Si riparte dal Lido con il ricordo anche squisito del senile “Finalement” di Claude Lelouch, presentato fuori concorso: la felicità di appartenere alla cultura e alla morale, sana, spontanea e naturale, del ‘900. Un film finale, testamentario, ma dolce, luminoso, accogliente. Viva questo patriarcato che ha condotto la cultura occidentale fin qui, prima che altre infauste confusioni la spingessero sul baratro in cui sta per disintegrarsi. Da novembre al cinema in Francia. Da noi, chissà?… In competizione c’era forse il vero più grande film di questa Venezia, ma impossibile da far digerire al pubblico “normale” che smarmella per Joker o Tim Burton: “Youth – Homecoming”. Il confine tra la fiction cinematografica e la realtà del documentario viene puntualmente polverizzato dall’immenso Wang Bing, che ci consegna il terzo meraviglioso capitolo della sua trilogia dedicata ai giovani lavoratori nei laboratori tessili della Cina profonda. Siamo nell’Empireo.
– Abbiamo finito?
– Quasi. Mancano ancora due ciliegine essenziali: anche questi, due diversi “scherzi”, entrambi macabri e lacerati da un’ironia fondente, grottesca, imbevuta di un pessimismo cosmico che si autoalimenta con la risata che ci seppellirà, non a caso le due visioni che al termine hanno scatenato le più crasse risate e il maggior delirio: “Broken Rage” di Takeshi Kitano, noir tokyota declinato entro 60 minuti nella doppia formula narrativa della tragedia e della commedia, e un film che ci arriva da chissà quale iperspazio nascosto nella testa del più venerato e scanzonato guru di un cinema alternativo perfino a se stesso: “Baby Invasion”, un compendio di tutta la violenza del mondo, da “Arancia Meccanica” al 7 ottobre. Viva Venezia!
(3. Fine)