Pablo Picasso (1881-1973) a Palazzo Reale di Milano è di casa dal 1953, da quando lui stesso scelse di esporre nella Sala delle Cariatidi, sventrata dai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale, il manifesto contro tutte le guerre, Guernica (1937). A questa mostra seguono altre importanti nel 2001, 2012 e 2017, ma nessuna come “Picasso lo straniero”, a cura di Annie Cohen-Solal, che indaga la condizione di esule di una personalità strabordante, egocentrica, simbolo dell’arte moderna, celebrato da tutto il mondo e considerato dai francesi uno straniero. Questa mostra ci permette di andare oltre i periodi blu, rosa, cubismo e le sue donne per comprendere la condizione di marginalità e precarietà in cui visse Picasso, prima vittima di discriminazioni e poi diventato patrimonio nazionale.
La mostra, erudita e interdisciplinare di taglio sociologico, è prodotta da Palazzo Reale e Marsilio Arte in collaborazione con il Musée National Picasso e la Porte Dorée, direttrice del Musée national de l’immigration e della Fondazione Palazzo Te. Essa nasce dal libro omonimo, pubblicato quest’anno in Italia da Marsilio, scritto dalla stessa curatrice, nipote di Jacques Derrida. La mostra è stata presentata a Parigi (2021-2022) e poi a New York (2023-2024). Cohen-Solal, partendo da una rigorosa ricostruzione storica basata su archivi della polizia francese, dimostra le difficoltà vissute da Picasso in una Parigi ostile agli stranieri, una città difficile per chi, come lui, arriva squattrinato nella capitale delle avanguardie, senza conoscere la lingua e carico di sogni, come tanti giovani artisti della sua generazione. Lo salva in primis la comunità catalana, i cittadini di Montmartre, che gli permisero di accedere alla capitale francese sulla base del principio della “migrazione a catena”, noto agli espatriati, che nel 1904 gli fornirono un atelier al Bateau-Lavoir, così nominato da Max Jacob per la precarietà dei materiali con cui era costruito, diventato edificio simbolo dell’ambiente bohémien, dove abita per cinque anni (1904-1909).
Picasso, entrato a Parigi dalla porta di servizio, riscatta se stesso grazie a una fitta rete di amicizie e relazioni con aristocratici e borghesi, critici, collezionisti e mercanti (in maggioranza espatriati), tra cui André Level, uno dei primi collezionisti francesi, che gli hanno permesso di vivere del proprio lavoro dal 1908, e di reinventarsi per trovare sempre nuove opportunità di crescere, cambiare e dimostrare il suo talento, ovunque andasse. La sua storia inizia e si sviluppa in parallelo con la comunità di espatriati, i “reietti” della società, che diventano un punto di appoggio per tutti i nuovi arrivati nella Ville Lumière alla ricerca di casa e lavoro, approdando all’arcipelago dell’arte cosmopolita.
La mostra, attraverso 90 opere che raccontano le fasi evolutive del suo segno metamorfico, tra cui ceramiche, disegni, collage, stampe e fotografie, spicca per inediti documenti polizieschi, carte d’identità, impronte digitali, richieste di cittadinanza e dossier su Picasso in cui risulta schedato dalla polizia (numero 74.664) come straniero “pericoloso”, che ha vissuto per quasi cinquant’anni ai margini del sistema francese. Dopo aver partecipato, a diciannove anni, con “Derniers moments” – la visita di un prete al capezzale di una donna morente – dipinto ancora accademico all’Esposizione Universale del 1900, Picasso vi ritornò regolarmente e, dal 1901, su invito della galleria Ambroise Vollard, per allestire la sua mostra organizzata dal suo amico e connazionale, mercante Pere Manach. Viene ospitato in casa sua, dove in tre settimane dipinge oltre sessanta opere, quando venne bollato dalla polizia parigina come “anarchico sotto sorveglianza”.
Picasso a Montmartre vive anni di bohème, nel quartiere malfamato e pericoloso, ad alto tasso di criminalità, assieme all’amico Carles Casagemas. Nella comunità catalana è considerato un anarchico avanguardista pericoloso dalla polizia francese. Nel 1905, lo straniero, sostenuto dall’amico Guillaume Apollinaire, dipinge unicamente zingari, acrobati e clown, mettendo in scena l’altra faccia di Parigi, archetipa della metropoli moderna, quella del dissesto sociale, dell’emarginazione e dell’instabilità.
Sala dopo sala, si attraversa una mostra avvincente che pone al centro l’opera di Picasso, dal periodo blu e rosa con i saltimbanchi, passando dall’arte iberica, arte africana, arte romanica, Balletti Russi, Minotauro, fino alle tecniche artigianali attinte dalla pratica della ceramica sviluppata negli anni Cinquanta ad Antibes e Vallauris (Francia). Comprendiamo che oggi l’arte sta dalla parte della fragilità, non delle istituzioni, dell’emigrazione a favore della mescolanza culturale. Non era facile dimostrare come Picasso sia riuscito a conciliare i suoi numerosi ambiti di appartenenza: spagnolo, francese, andaluso, catalano, galiziano, castigliano, anarchico e comunista in un secolo turbolento, funestato da due guerre mondiali, olocausto e nazionalismi di ogni specie, che lo rendevano bersaglio sorvegliato dalla polizia francese.
La curatrice, che ha studiato con Erving Goffman, ricostruisce la società francese partendo da Picasso, indagando non la sua indiscutibile genialità creativa, ma i segreti della sua vita. Come si è sentito l’artista più famoso del mondo, ma rifiutato dalla Francia, schedato dal 1931 con la dicitura sprezzante “spagnolo”, ritenuto uomo di estrema sinistra in una situazione aggravante durante i periodi di guerra e la paura di essere espulso da un giorno all’altro?
Da questa domanda dobbiamo partire per avventurarci nella storia personale di Picasso, figlio della cultura mediterranea, in rapporto al contesto politico, sociale e alla xenofobia, ancora dominante nelle ideologie nazionaliste. Pablo Ruiz Picasso a Parigi elabora una strategia vincente, frequenta amicizie influenti, intellettuali, poeti, artisti e collezionisti. Qualche nome? Il suo mercante Daniel-Henry Kahnweiler, il ricco collezionista Sergej Schukin, Alfred Stieglitz, lo studio-salotto di Gertrude e il fratello Leo Stein e tanti altri, contatti internazionali che lo portano nel 1923 a Chicago, dove tiene la sua prima mostra internazionale. Paradossalmente, il Louvre rifiuta nel 1929 la donazione delle celebri “Demoiselle d’Avignon” (1907), icona dell’arte moderna, opera che nel 1937 sarà venduta dalla vedova del proprietario Jacques Doucet alla galleria americana Seligmann e, nello stesso anno, rivenduta al MoMA al direttore Alfer H. Barr, che ha presentato la mostra “Picasso: Forty Years of His Art” (1939), folgorato dall’arte moderna già dal 1936, quando aveva omaggiato il cubismo con la mostra “Cubism and Abstract Art”, una mostra rivoluzionaria che ha affossato l’arte accademica.
Picasso entra in un museo francese solo a partire dal 1933 con un’opera non cubista, bensì del periodo blu. Nel 1940, allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, Picasso, sentendosi in pericolo (dal momento che per la Spagna franchista era un repubblicano, per la Germania nazista un “artista degenerato” e per i fascisti francesi un anarchico potenziale), il 3 aprile chiede al ministro della Giustizia una domanda di naturalizzazione alla prefettura di Parigi, con l’appoggio di amici socialisti influenti. La domanda viene respinta perché giudicato “Straniero privo di titoli per ottenere la naturalizzazione; comunque, visto quanto precede, deve essere considerato estremamente sospetto in ambito interno”, come si legge in uno stralcio della pratica depositata in prefettura.
Nel 1944, Picasso aderisce al Partito Comunista e, l’anno successivo, lascia Parigi per stabilirsi nel sud della Francia, sulle sponde del Mediterraneo. Da questo momento, la fortuna volge a suo favore; tant’è che nel 1947 Georges Salles, direttore dei Musei Francesi, accetta da Picasso una donazione di dieci opere, un atto che segna la fine della distanza tra il genio e lo Stato francese, passando dalla condizione di anarchico sorvegliato nel 1901 allo status di “residente privilegiato”.
All’alieno sovversivo osannato negli Stati Uniti negli anni Trenta, ma invisibile in Francia, nel 1985 viene dedicato il Musée national Picasso-Paris, che raccoglie più di cinquemila pezzi, per lo più provenienti dallo studio dell’artista catalano. Con l’inaugurazione del Museo, è la Francia a diventare picassiana e non viceversa. Negli anni Sessanta, la Francia intende conferire a Picasso sia la cittadinanza che la Legion d’Onore, ma lui rifiuterà entrambe, perché non gli interesserà più avere un’identità legalizzata da un passaporto, essendo un artista apolide e cittadino del mondo, aperto alla pluralità culturale, come dimostrano le sue opere.
Da questa mostra emerge chiaramente che il segno nomadico di Picasso si accompagna alle sue “appartenenze culturali”, che non dipendono dalla nazionalità in cui nasciamo, ma da dove viviamo e intrecciamo relazioni. Le nuove conoscenze ci permettono di cambiare punti di vista, poiché siamo le relazioni che riusciamo a tessere nel corso della vita. Più siamo aperti al confronto con gli altri, meglio comprendiamo i cambiamenti che stiamo vivendo e ci adattiamo a nuovi contesti, superando pregiudizi culturali. A confermare questa idea è l’immagine simbolo scelta per la mostra: un manifesto realizzato da Picasso nel 1956 per un’esposizione delle sue famose ceramiche, quando viveva felicemente in Costa Azzurra. Il disegno, a colori, riproduce una decorazione di un piatto bianco, su cui ci sono tre teste: una di uno straniero, l’altra di un cittadino e, al centro, domina il metèco, il métoikos greco, che potremmo semplificare definendo “richiedente asilo”. Questo diventa una bandiera non solo della società francese che Picasso immaginava.
La mostra di Picasso a Palazzo Reale, con il suo taglio sociopolitico, si completa con quella più poetica ospitata a Mantova, a Palazzo Te, dal titolo “Picasso. Poesia e Salvezza”, che raccoglie una cinquantina di opere, tra documenti, sculture, dipinti e disegni, alcuni mai esposti in Italia, a cura di Annie Cohen-Solal.