Tra realtà e subconscio, memoria e alterità, Rebecca Ackroyd (1987, Cheltenham, UK) ridisegna il Fondaco Marcello di Venezia con frammenti di corpi e stratificazioni temporali che trovano il loro focus nell’immagine dello specchio. Mirror Stage, a cura di Attilia Fattori Franchini, è in mostra fino 24 Novembre.
L’inchiostro gettato per condurre a nuova chiarezza l’immagine intesa come specchio e memoria rischia di rivelarsi un pozzo senza fondo. Una riflessione che ha bisogno di riflessioni, di pagine per niente facili che variano dalla psicanalisi alla storiografia, fino alla letteratura più enigmatica. Lo specchio e la sua “riflessione” assumono, pertanto, dinamiche e traiettorie a dir poco gargantuesche.
Vedere la mostra personale di Rebecca Ackroyd al Fondaco Marcello di Venezia aiuta a cogliere una tale complessità. L’intreccio panoramico di un palcoscenico la cui opera spazia su e giù dalla ribalta, seguendo lapilli scultorei di grandezze multiformi. Frammenti, ad un primo colpo d’occhio, e la loro sinossi temporale, la loro esplicitazione costruita e decostruita a un tempo. Fasi periodiche, lembi d’eterno racchiusi nel centro vorticoso della persona. Buco nero di un mistero travolgente.
In scena è quindi la memoria e il suo fulcro onirico, ovvero dovuto al groviglio implicito del ricordo che non sempre sappiamo decretare con certezza se sia sogno oppure coscienza della realtà. Della meraviglia coloratissima e seducente che sempre accompagna il lavoro dell’artista inglese, ma che obbliga a compiere il passo ricostruttivo, a ripercorrere anche solo ipoteticamente congiunture cicatrizzate per riunire i “pezzi”: le faglie congelate di un percorso narrativo, nella cui esposizione si rivela il suo senso.
Ruote e parti di corpo, movimenti che paiono anzitutto circolari, forse per via del ritorno, non come condanna, ma come possibilità di coesistenza tra ciò che è e ciò che è stato. Ready made e pose in attesa. Le più consuete del nostro costume. Un gesto ripetuto che gira nel tempo e in esso si ripercuote. Turba e colora, affonda le mani nei tratti di un ingranaggio tanto impalpabile quanto strutturato, nel cui agire e svolgersi si muovono malleabili i tratti del quotidiano e il suo antecedente. La percezione quasi involontaria di piccoli corpi robusti nudi e dalle pose classiche, forse putti e forse semidei.
Come Alice l’artista ci porta dentro lo specchio, dove ci si perde, eppure si trova secondo un processo oggettuale il riflesso di ciò che è soggettivo. Un frammento che ci riguarda, guarda di nuovo, nomina, o prova a farlo, e chiarisce aggrappato alla sua rimanenza. Nulla è metaforico e ogni cosa “è dato”. Indizio che cerca di dare un ordine, di trovare la sua “grammatica”, il suo senso logico, conscio e inconscio, che mostra altro riflettendo se stesso. Una struttura, dunque, la stessa che nei dipinti scandisce il movimento di un ingranaggio.
A tal punto che il ricordo va (almeno nella mente dello scrivente) alle mnemotecniche così ben descritte ne L’Arte della memoria di Frances Yates. Arte che non può esistere se non c’è più nulla che vale la pena di ricordare. Che non riemerge, che non può quindi essere inventato di nuovo e ancora. Per quel che necessita l’epoca di formazione in cui ci ritroviamo, in cui la chiarezza di una via intrapresa corre portata braccio a braccio dall’immagine di un desiderio e di ciò che è perturbante.
Nel riferimento allo Stadio dello Specchio di Lacan – in cui il bambino in una certa fase del suo sviluppo riconosce la differenza tra sé e l’altro – la posta in gioco è tra le più alte. L’opera di Rebecca Ackroyd si muove dunque tra ciò che è oggettivo e ciò che è soggettivo. Dal richiamo del primo al secondo, con l’eventuale possibilità che nell’esteriorità dell’altro ritrovi un’anima come la tua, ritrovi quindi te stesso.