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The turn of the screw, il male rivolto all’infanzia sublimato dalla scrittura orchestrale di Britten

Il giro di vite. Foto di Federico Pitto
Il giro di vite. Foto di Federico Pitto
Il giro di vite. Foto di Federico Pitto

Quando mesi fa ci fu la presentazione della nuova stagione del Teatro Nazionale di Genova, Davide Livermore disse da subito che lo spettacolo di apertura ci avrebbe stupito. Del resto, stupire sembra un diktat a cui l’eclettico direttore del teatro genovese non voglia mancare mai. 

In effetti, la proposta ci ha stupito in quanto Il giro di vite (o meglio The turn o the screw), che il 12 ottobre ha inaugurato la stagione, vede un’operazione “congiunta” col Teatro Carlo Felice: lo spettacolo presenta la versione teatrale e poi quella operistica nella stessa serata, tenendo inchiodati alla poltrona il pubblico per circa 4 ore. Considerando che non siamo né in epoca classica né romantica, in cui il pubblico andava a teatro per starci ore, ma era in tutt’altre faccende affaccendato, si può che l’operazione di Livermore è stata davvero azzardata. 

Il romanzo di James, scritto nel 1898, per la parte di prosa è stato adattato da Carlo Sciaccaluga, che ha operato una sorta di sintesi fra lo stesso James e Britten scrivendo un prologo nuovo, per poi inserire elementi che non si trovano nel romanzo, ma nel libretto che Myfanwy Piper ha realizzato per Britten. Un testo pretenzioso e velleitario, che con le sue continue citazioni di altri autori appesantisce la vicenda. Gli attori in scena, a parte Linda Gennari nel ruolo dell’istitutrice, appaiono stanchi e questa stanchezza affiora anche al pubblico, che a questa prima parte di spettacolo riserva applausi esigui.

Il giro di vite. Foto di Federico Pitto

Assolutamente diversa è la parte operistica, che risolleva le sorti della serata. Del resto The turn of the screw, che Britten compose per il Festival di Venezia del 1954, è una delle sue partiture più profonde: originale l’organico (13 soli strumentisti e sei voci), particolare la scrittura vocale, rigorosa la costruzione del materiale originato da un tema di dodici note che funge da base per le splendide variazioni strumentali e per le sedici scene dei due atti. Insomma, un capolavoro dalla struttura musicale geometrica, razionale, che vuole voci affilate e trasparenti, timbri isolati, lunghi silenzi che presentano il male non descrivendolo nel suo compiersi, ma come un avvitarsi di una vite (appunto, the turn of the screw) che stringe lo sguardo sui suoi effetti.  

Senz’altro l’opera di Britten, più vicina ai modelli di Bartók e Berg, in cui la cifra sperimentale risulta particolarmente evidente nella struttura improntata al serialismo, dove trovano però ampio spazio soluzioni personali e innovative. Per fortuna si tratta di un’opera che necessita di un’orchestra ridotta, accolta dalla piccolissima buca orchestrale del Teatro Nazionale, ma ci si domanda perché si sia scelto di utilizzare il palcoscenico del teatro di prosa e non quello del Carlo Felice. 

In ogni caso, nel complesso, il doppio spettacolo sembra funzionare, soprattutto grazie alla bravura degli interpreti (in particolare i cantanti) e all’ottima direzione d’orchestra di Riccardo Minasi.

Il giro di vite. Foto di Federico Pitto

La regia di Livermore si adatta senz’altro meglio alla parte operistica (a parte quando fa sedere la povera soprano in una poltrona appesa di fianco parete con testa e corpo messi ad angolo retto rispetto al pavimento), replicando gli effetti scenici usati nella versione solo teatrale. Ma nella seconda parte tutto sembra aver maggiore consapevolezza e quindi risulta più efficace. La dimensione spettrale della vicenda è suggestiva, anche se ricordiamo si tratta di spettri metaforici, che quindi potevano anche essere messi meno in luce fisicamente.

Bravissimi tutti gli interpreti vocali, dal piccolo Oliver Barlow nel ruolo di Miles, a Karen Gardeazabal la governante a tratti dolce a tratti disperata, fino a  Marianna Mappa, la demoniaca Miss Jessel  e a Polly Leech, una  vibrante Mrs Grose. Convincente Valentino Buzza nel ruolo vocalmente più difficile dell’opera, quello del diabolico Quint, che Britten modellò sulle peculiarità vocali del suo compagno Peter Pears. Tanti gli applausi del pubblico e i “bravo” che hanno sicuramente incoraggiato i protagonisti sul palco.

L’allestimento ad opera di Fondazione Teatro Carlo Felice di Genova, in collaborazione con Teatro Nazionale di Genova, è basato sulla produzione originale del Palau de les Arts Reina Sofia di Valencia e sarà ancora al Teatro Ivo Chiesa il 16, 18 ottobre ore 19.30; il 13 e 20 ottobre ore 15: in doppio spettacolo (prosa e opera a seguire); mentre 15, 17, 19 ottobre e dal 22 al 26 ottobre: solo prosa; mentre il 26 ottobre doppia recita ore 15 e ore 19.30.

Il giro di vite. Foto di Federico Pitto

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