Roberta Valtorta, storica e critica della fotografia, curatrice di mostre in Italia e all’estero, in questa intervista racconta un progetto e il catalogo di una mostra fotografica che ricuce il passato con il presente di una Palermo fisica e immaginaria.
Come nasce il progetto Mappa-Mondo e quali sono gli obiettivi che vi siete proposti?
La genesi del progetto si colloca negli anni tra il 2016 e il 2019, quando Sandro Scalia, fotografo e docente all’Accademia di Belle Arti di Palermo, coinvolge i suoi studenti in una esplorazione dei dieci paesi siciliani (Mazzarino, Santa Lucia, Pietraperzia, Niscemi, Barrafranca, Grammichele, Butera, Raccuja, Militello e Scordia) raffigurati, nella forma di antichi feudi dei Branciforti, nei dipinti settecenteschi che si trovano a Palazzo Butera, bellissima dimora nobiliare restaurata in anni recenti e sede della importante collezione di arte contemporanea di Francesca e Marco Valsecchi. Il lavoro si è interrotto nel periodo del covid, ma l’idea è stata ripresa nel 2023, quando sei fotografi (Giorgio Barrera, Martina della Valle, Sebastiano Raimondo, Moira Ricci, Sandro Scalia, Maria Vittoria Trovato – in origine sarebbe stato coinvolto anche Giovanni Chiaramonte, che purtroppo è mancato nell’ottobre 2023) sono stati invitati a realizzare delle ricerche in questi dieci paesi. Il progetto ha partecipato a Strategia Fotografia 2023, promosso dalla Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura, ed è stato tra i vincitori. I fotografi hanno lavorato partendo dalle bellissime mappe storiche, di cui in catalogo ci parla Claudio Gulli, direttore di Palazzo Butera, e indagando la realtà dei dieci paesi oggi, secondo metodi diversi, dallo stile documentario alla creazione di immaginari, anche con l’uso dell’intelligenza artificiale.
Perché ha messo un trattino tra Mappa e mondo, cosa intende evidenziare?
Sappiamo che normalmente la parola mappamondo è tutta unita. Il trattino, sorto in modo spontaneo dal dialogo tra i fotografi e me, se lo osserviamo con attenzione, mette in evidenza la distanza tra il “mondo” (cioè la realtà fenomenica) e la “mappa”, cioè la sua rappresentazione, anzi le molte rappresentazioni possibili, tutte relative. Il progetto, in sintesi, mette in evidenza la grande relatività dell’idea di rappresentazione.
Chi sono i sei fotografi scelti, cosa hanno in comune e come si sono confrontati con le dieci meravigliose mappe settecentesche che rappresentano i feudi dei Branciforti esposte a Palazzo Butera a Palermo?
I sei fotografi che abbiamo detto si sono mossi in modo diverso. Possiamo dire che tre di loro (Scalia, Raimondo, Trovato) hanno lavorato secondo quello che Walker Evans ha definito “stile documentario”, cioè con intenti descrittivi (ognuno di loro in modo diverso: Scalia realizzando un suo petit tour nei dieci paesi, cercando ciò che rimane della bellezza antica e rilevando il disastro contemporaneo; Raimondo con una visione quasi meditativa e, direi, malinconica, nei riguardi dello stato attuale di questi paesi; Trovato seguendo l’idea di fotografare gli attuali piani regolatori conservati nei Comuni, eredi delle mappe settecentesche). Martina della Valle ha costruito una sequenza tra paesaggio, figure, oggetti, la ricotta, protagonista dell’economia e della cultura siciliana, giungendo a costruire un teatrino in suo onore. Barrera ha giocato sull’idea di un polittico formato da vari paesaggi apparentemente coerenti tra loro, in realtà incoerenti e immaginati anche con l’uso dell’intelligenza artificiale. E sempre l’intelligenza artificiale ha usato Ricci, intervenendo con aggiunte di elementi in immagini non realizzate fotografando il luogo, Pietraperzia in questo caso, ma scaricando immagini da Google Street View.
Sono fotografie “documentarie” o una rappresentazione di una Sicilia perduta, ma non nostalgica o cos’altro?
Sono in parte documentarie, in parte immaginate. Stanno tra l’osservazione del disastro urbanistico contemporaneo, un pensiero alla bellezza e alla storia, l’intervento linguistico-tecnologico. Mostrano la grande varietà di comportamenti presenti oggi nella fotografia praticata come forma d’arte contemporanea complessa.
Come e perché avete deciso con questo progetto di rendere omaggio a Giovanni Chiaramonte, nato a Varese da genitori di Gela e cresciuto a Milano, maestro della fotografia italiana di paesaggio, ricercatore e docente, scomparso il 18 ottobre 2024?
Come dicevo, in origine Chiaramonte, fotografo di famiglia siciliana e molto legato alla Sicilia per tutta la vita, avrebbe fatto parte del gruppo di fotografi incaricati, ma purtroppo è mancato, dopo una lunga malattia. Abbiamo deciso di non sostituirlo, perché sarebbe stato un gesto irrispettoso, e di rendergli omaggio pubblicando nel catalogo una serie di fotografie da lui realizzate nel 1999 a Raccuja, uno dei paesi oggetto d’indagine. Si tratta di un bel lavoro sul Castello dei Branciforti, nel quale l’autore utilizza la luce come chiave della visione del paesaggio e delle materie dell’edificio storico. In catalogo le fotografie di Chiaramonte sono accompagnate da uno scritto della storica della fotografia Monica Maffioli.
Da questo progetto di carattere pubblico che ha coinvolto l’Accademia di Belle Arti di Palermo, in collaborazione con Palazzo Butera e che ha partecipato al progetto Strategia Fotografia 2023, voluto dalla Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministro della Cultura, struttura ministeriale che dal 2020 sostiene in vari modi la fotografia in Italia, dobbiamo credere che molto si è mosso, e anche la Fotografia è ufficialmente riconosciuta come medium culturale di documentazione dell’arte e dell’architettura, nonché forma autoriale capace di leggere in modo soggettivo la realtà anche dallo Stato e istituzioni?
Sì, certo. Dal lontano 1979, quando si svolse a Modena l’importante convegno dedicato alla fotografia come bene culturale, passi avanti, seppur lenti come drammaticamente vuole la cultura italiana, se ne sono fatti. Attraverso molti progetti di committenza pubblica dedicati al paesaggio, realizzati prima a livello locale e dal 2000 a livello ministeriale, la legge del 1999 dello stato italiano che dichiara la fotografia bene culturale, la grande crescita culturale dei fotografi e la loro presenza negli ambiti più vari, il riconoscimento dell’importanza della fotografia negli studi storici e teorici, la sua presenza nel mercato dell’arte, nelle raccolte pubbliche, negli insegnamenti in università e accademie, la situazione è in progress. Ci sono molti problemi ancora, ma si va avanti. Al punto che il Ministero ha istituito questo “contenitore”, Strategia Fotografia, che dal 2020 promuove e sostiene progetti importanti in tutto il paese.
Dai Fratelli Alinari a oggi la rappresentazione del paesaggio è cambiata, lei cosa intende per paesaggio fotografico esattamente?
Tutto. I grandi artisti, Walker Evans ai coniugi Becher, da Lee Friedlander a Lewis Baltz, da Robert Adams a Stephen Shore, ai nostri Gabriele Basilico, Guido Guidi o lo stesso Luigi Ghirri, ci hanno insegnato che nel mondo industriale e post-industriale non esiste la “bellezza”, non ha senso scegliere paesaggi “speciali”, ma tutto è interessante e significativo perché il nostro habitat, e tutti i problemi che presenta, deriva da scelte umane, economiche in primis, e poi sociali e culturali, e contiene memorie, intenzioni, pensieri.
Cosa ha significato la nascita dell’ICCD, delle collezioni dell’Antico Gabinetto fotografico nazionale, quella dell’Istituto nazionale per la Grafica, il CSAC dell’Università di Parma, l’importante progetto Archivio dello Spazio (1987-1997), voluto dalla Provincia di Milano come parte del Progetto Beni Architettonici e Ambientali, dal quale nasce il Museo di Fotografia Contemporanea di Cinisello Balsamo, e la nascita a Rubiera di Reggio Emilia dell’associazione Linea di Confine per la fotografia contemporanea, tanto per citare alcune importanti istituzioni?
Sono proprio i contesti in cui la ricerca fotografica ha potuto svilupparsi dagli anni Settanta a oggi, con un accento particolare sul paesaggio, con le molte ricerche dedicate ai territori in trasformazione. Si dimostra storicamente che esiste un forte legame tra fotografia, istituzioni pubbliche e paesaggio.
Con la fotografia abbiamo scoperto un altro sguardo, diverso, tecnologico sulla realtà. Quando i luoghi diventano paesaggio?
Il paesaggio esiste da quando gli esseri umani hanno iniziato a “toccare” la natura e a costruire manufatti, prima semplici, un semplice palo piantato nel terreno, e poi sempre più complessi, fino alle megalopoli, per dire, in un enorme processo di antropizzazione. E il paesaggio esiste se viene pensato come tale, se viene rappresentato, immaginato, descritto nelle varie forme culturali di cui disponiamo, dalla letteratura alla pittura, alla fotografia, al cinema.
Quali sono i luoghi e l’identità della fotografia italiana oggi nella cultura digitale?
Non ci sono luoghi particolari, né identità: abbiamo una situazione in fieri. L’uso del digitale è entrato nelle pratiche fotografiche di tutti; l’immagine digitale e tutti i processi di postproduzione a essa collegati sono ormai acquisiti. Siamo ora alla frontiera dell’intelligenza artificiale. Ma anche questa è già entrata nelle accademie e nelle università; si tratta solo di capire bene, con intelligenza e sensibilità, come affrontare questo ulteriore passaggio.
Cosa pensa dell’IA (intelligenza artificiale generativa)? Può aprire lo sguardo a idee di paesaggio e luoghi altri, oppure rappresenta un superamento della fotografia?
Con l’intelligenza artificiale si va oltre la fotografia. Non si tratta infatti di “evocare” immagini fotografiche già esistenti, pronte, che stanno in un “serbatoio” lontano e virtuale da cui pescare. L’intelligenza artificiale costruisce figure e scenari secondo percorsi suoi (si parla di promptografia), che possono essere guidati ma che riservano anche continue sorprese. Franco Vaccari aveva visto lontano quando aveva capito, seppur in quel momento in ambito specificamente fotografico, l’importanza e l’incidenza dell’autonomia dell’“inconscio tecnologico”, e ancor prima di lui aveva intuito l’autonomia della tecnica fotografica e cinematografica Walter Benjamin, con l’idea di “inconscio ottico”. Però si trattava di “inconsci” che affrontavano la realtà visibile dal vero, mentre l’intelligenza artificiale lavora secondo elaborazioni tutte sue, che stanno in un altrove.
Possiamo dire che i sei fotografi scelti rappresentano una possibile “scuola siciliana”?
Assolutamente no. Innanzitutto, nel progetto Mappa-Mondo abbiamo tre siciliani (Raimondo, Scalia, Trovato), un sardo-siciliano cresciuto a Firenze (Barrera), due toscane (della Valle e Ricci). Inoltre, oggi è molto difficile, direi impossibile, dividere le produzioni degli artisti in “scuole” di carattere locale. Gli artisti si muovono nel mondo, si nutrono di una cultura ampia, internazionale, anche globalizzata. Non esistono le nazioni; esiste il mondo grande, complesso, intricato, pieno di intrecci di culture e di suggestioni continue, nel quale cercare di agire e soprattutto di capire.