Appaiono come grandi teste di argilla, volti frammentati, improvvisamente tagliati dal elementi geometrici solidi. Sembrano figure composte con un materiale fragile, che pare sbriciolarsi in mille pezzi, dalla texture morbida, terrosa e permeabile, su cui è facile imprimere le impronte delle mani. E invece sono sculture di bronzo. Un bronzo travestito d’argilla, irriconoscibile.
Più vicine al non-finito michelangiolesco che all’idea della frammentazione come perdita di una forma autentica originaria, le sculture di Mark Manders danno vita a qualcosa di impensabile. L’immagine è completa, solida, anche se inganna il senso. Ciò che manca, ciò che è frammento, è piuttosto un invito alla fantasia di chi guarda, anzi, di chi abita lo spazio della scultura, ci gira intorno, ne respira l’atmosfera. Così l’opera inizia con le mani dell’artista e finisce in noi, nella nostra testa, anima e psiche, in modo imprevedibile, sempre aperto, forse proiettato su un futuro interiore più che anteriore.
Si è inaugurata il 31 ottobre, in occasione dell’artweek torinese, la mostra di Mark Manders (1968, Volkel, Paesi Bassi, oggi vive e lavora a Ronse, in Belgio). L’evento porta il titolo “Silent Studio” e, letteralmente, si presenta come una ricostruzione architettonica dello spazio fisico dello studio dell’artista. Uno spazio che si fa tempo, però, perché in esso è possibile ripercorrere molta parte del percorso di ricerca artistica di Manders dagli anni novanta ad oggi. Alcune opere in mostra sono pensate e realizzate apposta per l’occasione di questa mostra.
L’attenzione all’aspetto architettonico è un leit motif del lavoro di Manders e va letto in maniera trasversale. Non si tratta soltanto di ricostruire fisicamente lo studio dell’artista, così che il visitatore abbia l’impressione di immergersi nel lavoro nel suo fare, nell’incompiutezza del suo svolgersi, ma anche di qualcosa di più profondo. Già dalla fine degli anni ottanta Manders dichiarava l’intenzione di voler costruire il proprio autoportrait as a building. L’autoritratto come edificio, dunque, come una struttura abitabile, fatta di spazio. Ma chissà, viene anche in mente, scivolando dall’inglese al tedesco, la tradizione del building roman, il romanzo di formazione (come il Wihlelm Meister di Goethe, per intenderci), dove la figura di un giovane personaggio andava dipinta e composta via via dal racconto, fino a giungere a maturazione.
Lo scivolamento dall’architettura alla narrazione fatta di parole è tutt’altro che peregrina, nel caso di Manders, perché l’altro leit motif del suo lavoro è proprio l’attenzione per il linguaggio. La mostra alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo porta un titolo che dice molte cose: è lo studio dell’artista, ma è anche uno studio silenzioso. Questo silenzio non è però privo di parole. Solo che le parole di qui l’artista si giova, per condurre il proprio discorso, non sono pronunciate né scritte, bensì plasmate nel bronzo che sembra argilla, negli oggetti trovati e disposti in modo apparentemente caotico, random, qua e là sul pavimento, negli angoli, dove non ti aspetti.
L’identità frammentata – dell’artista, dello studio, dello spazio, ma anche dello spazio e del tempo dell’opera – è così ricomposta, ma ad un diverso livello di coscienza, attraverso l’agire inconscio del mondo psichico di chi si muove intorno alle opere, le guarda, le immagina fuori e dentro di sé. La mostra è visitabile fino al prossimo 16 marzo e per il fascino, l’eleganza, ma soprattutto la profondità e l’intensità delle opere è davvero da non perdere.
Contemporaneamente alla mostra di Mark Manders, le sale della Fondazione Sandretto ospitano poi altre due mostre.
La prima è dedicata al lavoro di Stephanie Heinze (1987, Berlino, vive e lavora a New York), qui alla sua prima personale istituzionale. Si tratta di un lavoro pittorico molto intenso ed elegante, con tele di grandi dimensioni e dai colori intensi. L’artista pensa e produce le opere in un primo momento come collages e composizioni di piccole dimensioni, per poi riprodurre il risultato della propria ricerca su tele più grandi.
La poetica di Heinze s’ispira al concetto di both and… che può essere tradotto (male) in italiano con “entrambi e…”. Oltre la logica oppositiva dell’opzione o/o, ma anche oltre l’et/et che piaceva a Hegel, Heinze sceglie una prospettiva più aperta, indefinitamente incerta, instabile. Ma l’instabilità è una scelta: che non vuol dire tanto non decidere, quanto conservare un’apertura mentale che rifiuta ogni limitazione. Il titolo della mostra, Your mouth comes second, è esemplificativo di questo punto di vista: l’arte, per Heinze, sta prima, a monte di ogni scelta razionale e logica, fosse anche soltanto quella delle parole utili a definire un concetto. La creatività qui è pura, magmatica, foriera di sempre nuove occasioni. Ogni opera nasce da un materiale pre-conscio, intuitivo, psichico, primordiale, e perciò intensissimo e denso di possibili conseguenze sempre imprevedibili.
Infine, la Fondazione Sandretto ospita anche la mostra personale di Bekhbaatar Enkhtur (1994, Ulaanbaatar, Mongolia, vive e lavora a Torino), vincitore lo scorso anno del premio Illy Present Future ad Artissima. Si tratta di una mostra più piccola per dimensioni, ma non meno interessante. Protagoniste qui sono le stelle, i presagi, tutte quelle realtà naturali che, come i gufi e le stelle cadenti, sono cariche di significati simbolici arcaici, fiabeschi, magici, pieni di senso. Sono modi inventati dagli esseri umani per rendere decifrabile il caos di un mondo altrimenti ostile, ma sono anche simboli carichi di un’energia archetipica senza tempo, piena insieme di poesia e di forza.