C’è qualcosa di profondamente strano, quasi surreale, nel pensare alla morte come a una forma d’arte. Ci penso mentre attraverso una Roma in pieno “cantiere” per l’ennesimo giubileo, insomma un work in progress perenne…Così incappo come per magia nella mostra di Krzysztof M. Bednarski dal titolo: “Simboli della vita dopo la morte” all’Istituto Polacco di Roma. Nella sua pratica, non c’è spazio per il sentimentalismo, per i cliché della commemorazione che conosciamo. No, qui si va molto più a fondo. Insomma non si perde tempo.
Bednarski è un maestro nel prendere l’inconcepibile – la morte – e trasformarlo in qualcosa di tangibile, di scolpito, di esteticamente complesso. È un atto di sfida: rappresentare la fine della vita non come qualcosa di definitivo, ma come un passaggio verso un’altra dimensione, una che lascia una traccia fisica e concreta nel nostro mondo. La sua opera più famosa, Thanatos polacco (1984), un simbolo di viaggio con una barca spezzata e un albero incenerito, è l’inizio di questo racconto monumentale che ci costringe a guardare in faccia la morte senza distogliere lo sguardo.
Ed è qui che Bednarski colpisce: non ha paura di creare per la morte. Dal 1992 ha scolpito decine di tombe per alcune delle figure più iconiche della cultura polacca e italiana – Krzysztof Kieślowski, Wojciech Fangor, Tomasz Stańko, Federico Fellini, e molti altri. Ognuna di queste tombe è un ritratto simbolico, una sintesi della creatività del defunto, ma senza mai cadere nel macabro o nell’eccessivamente decorativo. Quello che fa Bednarski è scolpire l’anima.
Le sue opere non sono mai facili. Non ti lasciano con la sensazione di avere capito tutto al primo colpo. C’è qualcosa di non risolto in queste forme, un senso di incompiutezza che riflette esattamente l’incertezza della nostra esistenza. Le sue sculture-sarcofaghi, come quelle per il compositore Krzysztof Penderecki e il poeta Adam Zagajewski, ospitate nel Pantheon Nazionale di Cracovia, non sono solo tombe. Sono racconti scolpiti nella pietra, che sembrano suggerire che la morte, in qualche modo, non sia la fine, ma solo un’altra fase del viaggio.
Bednarski rifiuta le forme funzionali e i simboli tradizionali. Non vedrete qui angeli o cuori. Le sue opere sono molto più crude, molto più oneste. Non hanno paura di confrontarsi con la personalità dei defunti, di abbracciarne l’eredità creativa e personale in modo diretto, persino provocatorio. Basta pensare al volto scolpito di Mario Schifano sulla sua tomba al Cimitero Flaminio di Roma: non una semplice commemorazione, ma una dichiarazione, un gesto artistico che parla sia della vita che della morte dell’artista in un colpo solo.
Eppure, dietro questo coraggio, c’è anche una profonda delicatezza. Le sue opere non sono mai fredde. C’è sempre un filo di emozione che lega la pietra all’umanità. Ogni scultura è come una domanda senza risposta, un promemoria del fatto che, per quanto cerchiamo di razionalizzare la morte, rimarrà sempre qualcosa di misterioso, di insondabile. E Bednarski lo sa bene.
Questa mostra non è per tutti. Le fotografie delle tombe, i bozzetti, gli appunti visivi che accompagnano la mostra non sono solo documentazione; sono un ulteriore strato di narrazione. Ti invitano a pensare, a riflettere sul tuo rapporto con la morte, su cosa lasciamo dietro di noi e su come la nostra esistenza può essere racchiusa in un simbolo, in una forma. Ma non aspettatevi risposte facili. Krzysztof M. Bednarski non ti darà mai la comodità di una conclusione chiara.
E forse è proprio qui che risiede la grandezza del suo lavoro: nel ricordarci che la morte, come la vita, è un processo, non un punto fermo. E se siamo abbastanza fortunati, qualcuno come Bednarski potrebbe scolpire per noi un simbolo che durerà molto più a lungo della nostra carne.