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Tutto qua? Note su Ai-Da e sul suo “capolavoro” artificioso

Ai-Da
Ai-Da
Note critiche sulla storia del robot umanoide Ai-Da, la cui “opera” è stata venduta da Sotheby’s per oltre un milione di dollari…

Scrive Elio Crema su queste pagine: «il 7 novembre 2024, l’opera d’arte A.I. God. Portrait of Alan Turing (2024) dell’artista robot umanoide Ai-Da è stata venduta per 1.084.800 dollari durante la vendita Digital Art Day di Sotheby’s. Ci sono state 27 offerte per il ritratto del matematico e informatico Alan Turing, una tecnica mista su tela davvero particolare». Ora però due parole su questa notizia bisogna pur dirle, magari circoscrivendo i contorni della faccenda, per quel che ne ho capito io almeno, cioè molto poco. Il robot si chiama Ai-Da: «un robot umanoide progettato da un team di ingegneri e programmatori delle università di Oxford e Birmingham, con l’obiettivo di produrre opere d’arte in modo autonomo. Utilizza telecamere posizionate negli occhi, algoritmi di intelligenza artificiale e un braccio robotico per disegnare e dipingere. Il suo aspetto ricorda quello di una giovane donna di origine caucasica, con frangia e capelli a caschetto. Il suo nome invece nasce da un gioco di parole che combina un omaggio a Ada Lovelace – matematica inglese scomparsa a 36 anni nel 1852, che per prima ha immaginato applicazioni delle macchine che vadano oltre i semplici calcoli –, il nome di donna “Aida” e l’acronimo “AI”, comunemente utilizzato per indicare l’intelligenza artificiale. Curiosamente, “Ai-Da” ricorda anche il nome del suo creatore, Aidan Meller, esperto di arte moderna e contemporanea con oltre vent’anni di esperienza nel settore, che da anni si dedica al progetto» (fonte: Domus web).

Questa Ai-Da, bisogna pur dirlo, è orrenda, non si può guardare, è un pupazzo grottesco che ricorda i peggiori effetti speciali dei B-movies degli anni Ottanta, con la parrucca sulla faccetta di plastica e i braccetti di metallo. Dovrebbe essere un passo verso la singolarità, verso il postumanesimo, ma ci vedo solo uno stereotipo rimasticato e fuori tempo da fantascienza stracciona – e sono uno che di fantascienza stracciona può parlare a ragion veduta, data la quantità di roba stracciona che ho guardato e letto e goduto negli ultimi quarant’anni. Insomma, se non puoi fare “bene” un Robot Umanoide, non farlo e prova a immaginare qualcosa di diverso, se ne sei capace.

E però questa Ai-Da dipinge, e cosa dipinge? Ecco, qui cominciano i problemi veri e si passa dalla macchietta alla farsa: Ai-Da dipinge il ritratto di Alan Turing, il matematico considerato il padre della cibernetica, detto altrimenti il creatore dei computer, quello che ha formulato il fatidico test-di-turing, il modo, altrettanto fatidico, con cui si può decidere se una macchina è capace di pensare, detto altrimenti: il dio-padre-dei-robot-con-intelligenza-artificiale. Cioè Ai-Da dipingere il suo dio-creatore. Roba da antico testamento. E come lo dipinge Ai-Da questo ritratto del dio-padre-dei-robot-con-intelligenza-artificiale? Fa una crosta – metà Francis Bacon e metà Glitch-art anni Novanta –, di una banalità sconcertante, una roba vista mille volte. A cosa ci serve una Intelligenza Artificiale se l’unica cosa che è capace di realizzare, di mostrarci, di immaginare l’abbiamo già in magazzino? Questa Ai-Da sembra un progetto in cui sono coinvolte un bel po’ di persone in gamba, non solo programmatori, esperti di robotica, matematici, ingegneri ma anche professori d’arte, critici, mercanti… e tutti insieme si sono messi intorno a un tavolo, hanno pensato i loro pensieri migliori, li hanno realizzati sborsando un bel po’ di dollari, e tutta la loro potenza di calcolo, di immaginazione, di spesa l’hanno ridotta a un’equazione tipo A uguale A: il robot con l’intelligenza artificiale che crea il ritratto del suo creatore. Una cosa così scontata, ingenua e furbastra ai limiti della volgarità che si può definire solamente – e fantozzianamente: una-cagata-pazzesca. Ma a parte questo esito estetico da quattro soldi (malgrado il milione che qualcuno è stato disposto a sborsare) viene da chiedersi: è tutto qua? è solo questo che siamo capaci di chiedere alle macchine del futuro? di rifare quello che facciamo noi – il figlio prediletto, l’antico testamento, il modernismo-esistenzialista? e se peggio o meglio non importa, l’importante è che non ci mostri qualcosa di diverso?

Recentemente ho letto il bel libro Modi di essere, del raffinato artista visivo e insieme raffinato pensatore James Bridle (non dovrei scrivere che Bridle è un artista e “insieme” un pensatore, dovrebbe essere implicito, sennò Duchamp si arrabbia, Bridle è artista e perciò pensatore, ma è meglio essere precisi) in cui si parla di intelligenze e di modi di stare nel mondo, di fare mondo. Bridle racconta di tutte le forme di intelligenza che attraversano il pianeta, intrecciandosi, scontrandosi a volte e, più spesso, esaltandosi a vicenda. Queste intelligenze sono di tutti i tipi: sono biologiche o artificiali; sono funghi, api, computer, persone, uccelli nel cielo, satelliti; sono artisti e poeti e scimmie chiuse in una gabbia; sono granchi che vanno verso il mare e fiumi che scorrono impetuosi; sono microchip e filosofi, insomma tutto quello che nel mondo vive e si muove e crea vita in modi sorprendenti. Bridle non distingue fra intelligenza biologica e intelligenza artificiale, intelligenza umana e non umana e ci invita ad allentare, se non abbandonare, la pretesa di pensare l’intelligenza umana come il vertice del creato ma di intenderla piuttosto come un nodo in una trama complessa e sorprendente.
Solo così, secondo Bridle, si possono creare nuove ecologie, nuovi “modi di essere”, essenziali per riuscire a condividere il pianeta con tutta la vita, anche quella artificiale, che lo abita insieme a noi, smettendo di estirpare, sfruttare, abusare o uccidere tutto quello che non ci somiglia. Quindi, abbandonare la pretesa di essere il vertice del creato significa, anche, e forse per prima cosa, smettere di creare questi manichini grotteschi e ossessivi che simulano l’umano, questi pupazzi creati “a nostra immagine e somiglianza”, oggetti che nelle intenzioni dei loro creatori, dovrebbero espandere il nostro pensiero, il nostro sguardo e offrirci nuovi modi di stare nel mondo ma che invece costruiscono perfetti recinti in cui rinchiudere la nostra spocchia di scimmia con i pollici (in questo caso, anche, pupazzi che puzzano di sessismo: chissà perché Ai-Da è una giovane donna, nelle intenzioni del creatore Aidan Meller – indiscutibilmente un maschio bianco standard come me – magari doveva ricordare Ada Lovelace ma sembra invece più una hostess carina e accondiscendente, perché non farla invece somigliante a quella vecchia strega di Louise Bourgeois che se ne va a passeggio sghignazzando con un enorme cazzo sotto il braccio come trofeo? Louise fa paura anche a te Aidan? eh, confessa).

Robert Mapplethorpe, Louise Bourgeois

Insomma, Bridle ci invita a confrontarci con l’intelligenza non umana, sia biologica sia artificiale, scendendo dal piedistallo, il confronto può offrirci nuove possibilità per arricchire la nostra esperienza e soprattutto può indicarci la strada per ripensare in modo radicale e virtuoso il nostro modo di stare nel mondo, magari senza distruggerlo. Mi sembra che Aidan Meller, con il suo fantoccio umanoide Ai-Da, proceda spedito nella direzione opposta.

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