Ho visitato con Marianne Heier La Passione, il suo nuovo progetto che la Fotogalleriet di Oslo ospita fino a fine dicembre, una dichiarazione di amore e stima per il femminismo radicale italiano. Si tratta di un lavoro autoriale ancor più che curatoriale, a partire dal display complesso, pensato dalla Heier che utilizza e riattiva, metaforicamente, un lavoro di Michelangelo Pistoletto conservato nelle collezioni di arte contemporanea del museo nazionale di Oslo.
Quest’opera, del 1991, un remake degli oggetti specchianti del maestro dell’Arte Povera italiana, è agli occhi del team curatoriale allargato della galleria, tra cui figurano Antonio Cataldo, Miki Gebrelul e Lara Okafor, una sorta di teorema da verificare e riscrivere soprattutto a livello istituzionale. Questo per riparare alla mancanza di visibilità di presenze femminili dell’arte contemporanea italiana nelle collezioni norvegesi in anni segnati da una forte componente di pensiero e pratica femminista fortissima.
Con Marianne Heier, che ha vissuto e studiato in Italia fino al 2000, abbiamo parlato di alcuni punti centrali non solo della mostra ma più in generale della percezione nel contemporaneo dalla critica acerrima e seminale a cui il sistema dell’arte fu sottoposto proprio dalla radicalità del lavoro femminista di quegli anni. Le donne e non solo concettualmente furono tra le prime a porre in questione l’identità del lavoro dell’artista ed anche di una possibilità di fuga dalla violenza coercitiva insita in ogni istituzione di questo tipo, in anticipo sulle discussioni radicali di collettivi e presenze contemporanee. Ed è proprio qui che si innesta in tutta la sua forza la figura centrale di Carla Lonzi, il cui ritiro nel territorio solitario e militante del pensiero puro viene riletta oggi non solo come una reazione avvenuta dopo l’analisi delle movenze contraddittorie dell’arte e della critica d’arte di impianto patriarcale, ma fin dalla sua fondazione come un sistema di messa in crisi della società stessa. Marianne Heier ha curato in uscita a fine mese la traduzione per la prima volta in Norvegia dei due Manifesti di rivolta femminile della Lonzi nelle successive versioni.
Tuttavia proprio questo del femminismo radicale è stato, mi confida paradossalmente, uno dei maggiori problemi con cui ha dovuto fare i conti. Lei stessa militante e sostenitrice di collettivi ed iniziative come Femidomen @femi.domen si è sentita rispondere a livello istituzionale, che questo della parità uomo-donna o della questione femminile era un problema risolto dalle socialdemocrazie nordiche e scandinave. E quindi niente spazio tra i corridoi dei nuovi musei cittadini che sembrano più impegnati a manovrare gli assets dei prestiti dei ricchi collezionisti o delle banche che sponsorizzano gli eventi. Risposta decisamente affrettata visto che in questo periodo proprio queste questioni di violenza contro le donne si dividono le prime pagine di giornali e rotocalchi norvegesi con il passaggio di proprietà di hub culturali inventati dai miliardari del paese.
Nelle numerose visite guidate alla mostra, la Heier ha riscontrato un enorme interesse, nel pubblico più giovane, spesso perfino scioccato da opere in mostra come il video di Bingöl Eimas che ripercorre il viatico di Pippa Bacca dopo il suo efferato omicidio in Turchia o dalle immagini di Everyday Dicks di Silvia Giambrone confrontata all’orrore quotidiano di uno stalker a colpi di eiaculazioni esplicite. Ma ha anche apertamente verificato la qualità della documentazione, di gran parte dei lavori esposti che provengono dalla collezione di Donata Pizzi. Una miniera quando si tratta di promuovere il lavoro delle donne in relazione alla fotografia dagli anni ’60 ad oggi. È da questo fondo che Marianne Heier ha selezionato materiali, opere e documentazione. In mostra gli splendidi originali dei travestiti di Lisetta Carmi o la serie Regalità di Marcella Campagnano, passando per i pressoché inediti scatti di Lucia Marcucci.
Come sottolineato dall’artista, per le artiste italiane associate al movimento femminista, la transizione tra teoria femminista, attivismo e pratica artistica aveva reso porose le frontiere tra diversi media. Vista anche la scarsità di risorse economiche, collage e fotografia xerox sono diventate e ridiventate importanti utensili di critica ed analisi alla cultura visiva dominante, moda e pubblicità, e se all’epoca largamente ignorate dalle istituzioni, sono riemerse in anni recenti proprio come pionieristiche, specialmente in questi ambiti. Quello che questa mostra non cessa di sottolineare è che stiamo assistendo ad una moltiplicazione delle referenze alle artiste femministe del decennio ’60 e ’70. Le pratiche performative in cui Marianne Heier è una indiscussa referenza (ed una sua splendida performance ha aperto la mostra) e non solo in questo paese, hanno creato una vera rete informale di canali e relazioni che cominciano a lambire musei ed istituzioni.
Artiste come Chiara Fumai, in mostra con lo splendido cortocircuito di Shut Up, Actually Talk, video del 2012 presentato a Documenta, aprono anche ad una direzione esoterica non ancora esplorata, ad un’idea di channeling e di proliferazione nell’uso di corpi e tesi radicali. La strategia femminista è forte ed anche in questo paese sta riesplodendo nel lavoro di tantissime artiste come Marie Gurine Askeland o Marte Ramm Fortun tra le altre.
Sputare su Hegel è diventato a cinquant’anni di distanza non solo una necessità ma la sola possibile ridefinizione dell’impianto patriarcale che si porta con sé lo smantellamento del potere stesso e delle incarnazioni autoritarie di nuovi e vecchi fascismi che continuano ad attraversare le società occidentali e vorrebbero sbarazzarsi del lavoro importantissimo portato avanti con passione dal femminismo, ora come allora ancora troppo giovane e virulento per essere reso inerte dai format museali odierni, che sono di fatto, almeno qui… inesistenti.