Flow – Un mondo da salvare è un lungometraggio d’animazione del 2024 diretto da Gints Zilbalodis che sovverte totalmente l’approccio ego-riferito che l’uomo solitamente adotta quando deve mettere in scena la vita animale.
Quando ci troviamo di fronte a film di animazione con animali, il modello dominante è quello delle creature antropomorfizzate: parlano, provano emozioni a noi note e agiscono secondo schemi narrativi che li rendono comprensibili per il pubblico. Nell’opera di Gints Zilbalodis, Flow (2024), l’essere umano viene invece eclissato fin dal principio, anzi, letteralmente affogato dall’acqua, che copre anche tutto ciò che nei secoli ha costruito. Sommersi tutti gli uomini e quasi tutte le sue creazioni a causa del silenzioso, potente e apocalittico innalzamento delle acque, la storia può cominciare.
Fin dal principio, quindi, gli spettatori comprendono di non trovarsi davanti alla solita rappresentazione di animali che si comportano da uomini, ma che essi sono creature senzienti, indipendenti e autonomi nelle loro azioni e interazioni, che non comunicano con sguardi espressivi né agiscono secondo schemi umani.
Il regista racconta così le vicende di un gruppo di animali formatosi casualmente e della natura con cui si imbattono, facendoci capire che questa volta non siamo noi i protagonisti, nemmeno una nostra proiezione; siamo invece costretti ad accettare la nostra condizione di semplici spettatori, possibilmente non giudicanti. Addirittura potremmo seguirli pure senza empatizzare con loro, lasciandoli agire senza riconoscersi nei loro comportamenti.
Il gatto nero e i suoi compagni (un capibara, un cane, un lemure e un uccello) che si salvano per mezzo di una piccola barca a vela non sono eroi, ma agiscono semplicemente secondo la loro natura, guidati dall’istinto e dalla volontà di sopravvivenza. Il parallelismo con l’arca di Noè può sembrare scontato, ma Zilbalodis ha un approccio totalmente differente rispetto alla storia biblica, dove gli animali sono salvati non per ciò che sono, ma per il ruolo che occupano nel creato, dove l’essere umano è centrale. Questi sono trasformati in pedine di una narrazione incentrata sull’uomo e appaiono come rappresentazioni funzionali (la colomba è la pace, l’elefante è la forza…). Inoltre, il diluvio è un evento sì distruttivo, ma anche purificatore, a servizio della redenzione umana.
Questo antropocentrismo sacralizzato, dove gli animali esistono in funzione del disegno umano-divino, viene sovvertito dal regista lettone grazie a una prospettiva biocentrica, in cui ogni vita ha un valore intrinseco e si inserisce in un equilibrio ecologico. La persona che guarda il film potrebbe considerare questa visione alienante, ma con il passare del tempo avviene una maturazione nello spettatore, che gli permette di comprendere la natura in una maniera più autentica e rispettosa.
Se con la storia biblica si usa l’antropomorfizzazione per costruire il senso di responsabilità, Flow ci suggerisce che il primo passo per salvare la natura sia riconoscerla per ciò che è e non per quello che vorremmo fosse. Questa natura non è sfondo per storie umane, ma il centro della narrazione. Gli animali non hanno bisogno di Noè per salvarsi, non si salvano perché qualcuno li protegge, ma perché, semplicemente, continuano a vivere.