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Milano Film Festival 2019. Quattro film da non perdere di vista

Makoto Nagahisa, We are little zombies, 2019
Makoto Nagahisa, We are little zombies, 2019

In attesa di conoscerne tutti i vincitori, una breve lista di film che hanno lasciato il segno (almeno nel nostro cuore) durante la 24° edizione del Milano Film Festival. Piccoli gioielli da non perdere di vista e, per chi se li fosse persi, da riacciuffare a tutti i costi.

La 28° edizione del Milano Film Festival, in scena presso il Cinema Odeon dal 4 al 10 ottobre, sta ormai giungendo al termine, riconfermando l’altissimo livello qualitativo raggiunto dalla rassegna meneghina. Dalla delicatezza dell’uruguaiano The Sharks, alla folle psichedelia di We are little zombies, passando per la sottile irriverenza del corto d’animazione Tomas Beneath the Valley of the Wild Wolves la commovente verità di A progressive girlQuattro film, lunghi e corti, che per un motivo o per l’altro hanno fatto breccia nel nostro cuore. E che, se per caso ve li foste persi, vi consigliamo vivamente di recuperare. 

THE SHARKS

Presentato al MFF nella sezione Concorso Internazionale Lungometraggi, The Sharks è l’opera prima di Lucía Garibaldi, giovane regista uruguaiana. Tenue e delicato come i colori pastello che tinteggiano le scene lungo tutto l’arco del film,  si presenta come un coming of age che supera gli stereotipi di genere per narrare una storia semplice senza fronzoli né manierismi. Sincero, come la realtà che racconta. Siamo in una piccola località marittima in cui gli autoctoni trascorrono metà dell’anno senza acqua corrente, arrabattandosi per sbarcare il lunario. Vite semplici e senza pretese, sospese nell’afa estiva. Gli squali sono quelli che qualcuno sembra avere avvistato nella baia, con conseguente psicosi collettiva alimentata dall’arrivo dei media locali. Ma gli squali sono anche, e soprattutto, i pericoli dell’adolescenza, quelle passioni a cui si cede con beata innocenza per poi uscirne morsi, feriti e sanguinanti. E che sono sempre lì che ci accerchiano, pronti a riacciuffarci. 

Lucía Garibald, The Sharks, 2019

In questa cornice si muove Rosina, una teenager che, a dispetto del proprio nome, di un grazioso fiore ha ben poco: si veste come una maschiaccio e si comporta come tale, in perenne conflitto con la sorella e le coetanee. L’unico che pare degno della sua benevola attenzione è un ragazzo di qualche anno più grande, la sua prima cotta, nonché la sua prima grande  delusione. Ma che Rosina è una dura lo abbiamo capito sin dai primi minuti di film, quando ha quasi accecato la sorella per un banale litigio. Nel corso di una quotidianità ovattata dalla canicola e dalla noiosa preparazione della prossima stagione turistica, la nostra protagonista attua una serie di vendette in equilibrio tra gioco e crudeltà. The Sharks ci piace perché è capace di regalarci quel brivido eccitante che risiede nel parteggiare per un personaggio un po’ cattivo. Ci fa godere in silenzio di quelle piccole ripicche che vorremmo aver attuato anche noi, almeno una volta nella vita. Puntellato da una patina hipster alla Xavier Dolan e da una morbidezza all’Alice Rohrwacher, tra rallenty da videoclip e dettagli intimi e soavi, il film si è aggiudicato il premio Work in Progress (Cine en Construcción) all’edizione 2018 del San Sebastian Film Festival ed è stato presentato in anteprima al Sundance

WE ARE LITTLE ZOMBIES

Tokyo, quattro bambini perdono i genitori in modo tragico: chi in un incidente d’auto, chi in un incendio, chi per mano di un folle assassino, chi per suicidio. Orfani, si incontrano in un crematorio. A dispetto del suo strambo titolo, l’incipit di We are little zombies sembra presagire una storia strappalacrime, di quelle che un pacchetto di kleenex forse non basta per reggere i 120 minuti di film. Al contrario, è chiaro sin da subito che siamo di fronte a qualcosa di divertente, delirante e assolutamente assurdo. E il motivo è che nessuno di questi quattro bambini è in lutto, perché odiavano profondamente i propri genitori. Ognuno di loro con un’ottima ragione per farlo. Lungometraggio d’esordio di Makoto Nagahisa, scrittore, regista e compositore giapponese che nel 2017 si è aggiudicato il Short Film Grand Jury Prize in occasione del 33° Sundance Film Festival con il cortometraggio And So We Put Goldfish in the Pool, We are little zombies è stato presentato al MFF nella sezione The Outsiders. Più che un film, è un’esperienza in cui tuffarsi senza inibizioni o preconcetti, avventurandosi come Link nella terra di Hyrule in The Legend of Zelda. E l’esempio del videogioco non è a caso, perché la pellicola si sviluppa proprio secondo le regole del videogame : c’è una trama, ci sono degli eroi, ci sono dei cattivi, e 13 livelli da superare. 

Makoto Nagahisa, We are little zombies, 2019

Hikari, protagonista e voce narrante del film, era ignorato dai propri genitori e preso di mira dai compagni, che lo soprannominavano “oscurità”. A Ikuko non andava poi tanto meglio. Additata dalla madre come “inguaribile seduttrice”, riceveva imbarazzanti avances dal suo maestro di pianoforte. Yuki faceva spesso a botte con il padre per vendicare la madre picchiata, mentre il tenero Shinpachi non era tanto bullizzato dai coetanei quanto dai suoi stessi genitori. Ma tutto questo è finito: la morte di mamma e papà diventa l‘occasione per riguadagnarsi la vita. Forti di una precoce maturità, i quattro orfani stringono amicizia e decidono di fuggire insieme dall’insulsa cerchia di adulti che li assale ai funerali. D’ora in poi, vale un’unica regola: vivere alla giornata, perché, come dice la margottiana Ikuko in una scena del film “io odio il futuro”, quindi tanto vale non pensarci. Intervallato da siparietti pseudo demenziali, mai eccessivi e sempre spassosi, il film è un susseguirsi di avvenimenti assurdi ma assolutamente plausibili, muovendosi nel mondo naïf di quattro tredicenni sfrontati e strafottenti. Tant’è che un bel giorno, riesumando quel poco che rimane della loro vita precedente (ovvero un wok arrugginito, un basso, una pianola e una console), i nostri quattro eroi mettono in piedi una pop-band. Sfruttando l’appetibile condizione di giovani-orfani-tristi, trovano il successo con una canzone che recita, appunto, “We are little zombies”. Ecco che parte il côté musical del film, la cui colonna sonora è interamente composta da Makoto Nagahisa. Tuttavia, al di là dell’apparenza illogica e dei toni leggeri, la sceneggiatura fa emergere qualcosa di più profondo: il mondo degli adulti disinteressati e talvolta crudeli crea un esercito di bambini incapaci di provare emozioni, dei veri e propri morti viventi, degli zombies. L’avventura di Hikari, Ikuko, Yuki e Shinpachi diventa un viaggio dentro la loro vita interiore, alla scoperta del favoloso mondo dei sentimenti. Da vedere. Con il rischio che le canzoni anglo-giapponesi vi rimangano in testa almeno per una settimana. 

TOOMAS BENEATH THE VALLEY OF THE WILD WOLVES

Sulla scia di Fantastic Mr. Fox, lo strampalato Toomas Beneath the Valley of the Wild Wolves ci trasporta in un mondo di animali antropomorfi che conducono vite umane. Per lo più, il protagonista è ancora una volta un padre di famiglia con tutte le responsabilità del caso. È Toomas, un uomo onesto, lavoratore ligio al dovere, marito di Vivi e padre di due bambini, con un terzo in arrivo. Fin qui tutto perfetto, se non fosse che ha un unico enorme problema: è tremendamente attraente. Di conseguenza, riceve avances in continuazione, più o meno da tutte le donne che incontra, che rifiuta senza pensarci due volte. Quando però è la sua capa a provarci, denudandosi in ufficio, il suo rifiuto ha come conseguenza il licenziamento.  Invertendo la classica dinamica che ha scatenato la nascita del #metoo, in cui è la donna a subire molestie sessuali sul posto di lavoro, il film indaga la sessualità maschile e le conseguenze dell’essere visti come meri oggetti sessuali. Toomas non ha il coraggio di confessare il fatto alla moglie incinta che, dal canto suo, decide di sfuggire dalla quotidiana condanna a donna-madre avvicinandosi a un movimento di emancipazione femminista. Lui, invece, si reinventa come idraulico, ma come vogliono i classici canoni del porno, viene assalito da una cliente dopo l’altra mentre esamina lavandini. Finché, estenuato, decide di starci, e per i due coniugi iniziano a susseguirsi le rocambolesche vicende di due vite parallele. Presentato nella sezione Concorso Internazionale Cortometraggi, il film è firmato da Chintis Lundgren, che con i suoi cortometraggi dai toni leggeri e ironici si è già aggiudicata diversi premi. Con Toomas Beneath the Valley of the Wild Wolves, l’animatrice estone autodidatta non manca di soddisfare le aspettative. 

A PROGRESSIVE GIRL

Noé Debré, A progressive girl, 2019

Last but not least, sempre nella sezione Concorso Internazionale Cortometraggi, il franco-israeliano A progressive girl. Scritto e diretto da Noé Debré, che già vanta in curriculum la sceneggiatura di Dheepan di Jacques Audiard, la vicenda di un combattente per l’indipendenza dei Tamil, vincitore della Palma d’oro a Cannes nel 2015. Questa volta ci troviamo in Israele e il protagonista è Nathan, uno studente francese di una scuola talmudica. Profondamente scrupoloso e ligio alle regole religiose, si astiene diligentemente dal guardare o toccare il corpo di qualsiasi donna, fatto tollerabile soltanto in caso di serio pericolo. Ma quando organizza l’addio al celibato di un suo amico francofono in una villa israeliana, il suo rigore è messo a dura prova dall’arrivo di un’avvenente spogliarellista. Nathan si chiude in camera in attesa che finisca lo show, ma una complicazione lo costringe a doversi interfacciare con lei, essendo l’unico bilingue della situazione. Il problema è che lei è bellissima, irriverente e sempre spudoratamente nuda. Sembrano le premesse di un film comico, e invece non c’è granché da ridere. Pulito e interpretato alla perfezione, la pellicola posa su una sceneggiatura attenta ed equilibrata, capace di tenerci in sottile equilibrio tra una risata e un pianto furibondo. Non a caso Noé Debré è uno degli scrittori francesi più richiesti del momento. 

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