Critici, artisti, direttori di museo, giornalisti, galleristi riflettono sui nuovi protagonisti di una scena dell’arte contemporanea un tempo presidiata dall’Occidente
Sì, lo sappiamo bene, le categorie – Occidente, terzomondo, periferia – sono da tempo materia archiviata dal dominante globalismo. Da decenni il dilagare della comunicazione ha azzerato ogni distanza, garantendo ad artisti, critici, studiosi di ogni angolo del globo pari opportunità di intervenire nelle dinamiche socio-culturali. Una grandissima conquista di civiltà e di crescita. Eppure è sotto gli occhi di tutti che questo indispensabile riequilibrio sia presto sfuggito a logiche razionali, viziato da influenze ideologiche e politiche, che nei massimi sistemi nascondono sempre spinte finanziarie.
Fino agli anni Ottanta, inutile confutarlo, le redini del “sistema dell’arte” erano – salvo sporadiche eccezioni – saldamente nelle mani di attori che per semplicità definiremo “occidentali” (europei, anglo-americani). Dagli anni Novanta, grazie all’azione di diversi studiosi illuminati – Harald Szeemann, Jean-Hubert Martin, per citare qualcuno – sono iniziate ad emergere istanze “periferiche”, stimoli nuovi provenienti da realtà spesso ignorate, capaci di immettere ossigeno in un contesto non di rado asfittico e tendenzialmente autoreferenziale.
Risultati contrastanti
Negli ultimi anni, tuttavia, a questo salutare “revanchismo” si va sostituendo un meccanismo uguale e contrario al vizio originario. Oggi molti segnali sembrano voler affermare una aprioristica superiorità di quanto emerga da realtà vittime del lungo oblio. Con risultati spesso contrastanti, quando non del tutto scollegati all’oggetto fulcro di ciò che definiamo come “arti visive”, ovvero la qualità intrinseca di un’opera. Paradigmatico quanto avvenuto nel 2020, quando la seguitissima Power 100 List stilata dalla rivista ArtReview pose al primo posto il movimento Black Lives Matter. E gli esempi a conferma di questo trend sarebbero infiniti.
Anche la Biennale di Venezia, che resta il più importante evento internazionale per l’arte contemporanea, pare adeguarsi ai nuovi standard. Dopo una mostra ampiamente – per molti troppo – inclusiva come quella del brasiliano Adriano Pedrosa, ora arriva la direzione della camerunense Koyo Kouoh. Nulla da eccepire, ovviamente, sulle capacità dei personaggi coinvolti, del resto avvalorate da importanti curriculum. Ma una domanda si impone: davvero gli “occidentali” hanno improvvisamente perduto ogni capacità di leggere la realtà contemporanea? Da qui avviamo un’inchiesta nella quale coinvolgeremo critici, artisti, direttori di museo, giornalisti, galleristi. Certi di proporre un approccio provocatorio, e anche divertente…
Andrea Bruciati
È il colonialismo che rientra dalla finestra: il paventato timore di parlare di arte anche come tratto identitario e, perché no, orgoglio nazionale. E chi ne fa le spese sono i paesi emergenti (Italia inclusa da decenni in un limbo indistinto), alla perpetua rincorsa di un accreditamento nel salotto buono dell’arte contemporanea quando sarebbe invece auspicabile l’inverarsi di percorsi autentici e autonomi, quasi autarchici. La Biennale ha infatti per me una vocazione universale che è diversa da internazionale o globale. L’Universale non cancella il particolare ma anzi da esso si astrae e in esso si declina perché l’accoglimento della differenza nella visione culturale è arricchimento, sempre. Che una professionista camerunese debba passare poi dalla Svizzera… tutto estremamente provinciale e in fondo estremamente triste, forse figlio, anche questo, di tempi dove le idee e la Storia si fanno altrove.
Marco Tonelli
Outsider, donne, non binari, queer, migranti: all’appello delle Biennali degli ultimi anni mancava in effetti dare centralità al black lives matter e alla questione razziale, che molto probabilmente la direzione della curatrice africana Koyo Kouoh saprà ben sviluppare. Si tratta del resto, nel loro complesso, degli argomenti più caldi degli ultimi dieci anni ed è giusto che una manifestazione internazionale come quella veneziana li affronti. In questo caso il dubbio riguarda più la specificità delle competenze della direttrice, eminentemente legate all’arte africana contemporanea. Un settorialismo, quello di Kouoh, che fa presupporre uno sbilanciamento (compensatorio?) verso l’Africa e il Terzo/Quarto mondo.
Al momento difficile dire di più, una cosa è certa: più una Biennale è dichiaratamente schierata (quella queer di Pedrosa ad esempio), meno sembra libera nelle scelte, con ricadute evidenti sulla qualità delle opere come dimostra la rassegna del 2024 appena conclusa.
Noi tifiamo per il panafricanismo e faremo studi e corsi di Black Art, ma attenzione, come dichiarava polemicamente Malcom X (il primo grande leader che tentò di ricomporre la vicenda razziale dei neri americani con il continente africano d’origine): “Io non so nulla del Sud: sono una creazione dell’uomo bianco del Nord”. Non a caso si legge che Kouoh sia cresciuta in Svizzera: “colonialismo” culturale di ritorno? Ricordo che il compianto Okwui Enwezor del resto, primo curatore nero e africano della Biennale, vestiva orgogliosamente Prada!
Nicola Verlato
È molto presto per esprimere un parere, ma, giudicando dalla biografia della nuova Direttrice Koyo Kouoh, e dalle sue prime dichiarazioni, si viene indotti a pensare che la nuova Biennale, probabilmente, continuerà sulla strada già percorsa da Pedrosa (a sua volta anche delineata in parte da Alemani nella Biennale precedente). Questa, a mio parere, è la linea delle mostre “anagrafiche” caratterizzate da un taglio di tipo essenzialmente socio-antropologico. Significherebbe cioè che le caratteristiche esistenziali dell’artista sono ritenute più importanti dell’arte che l’artista produce. In questa ottica l’opera d’arte è vista come un effetto collaterale di una condizione esistenziale ( il migrante, le minoranze, l’appartenenza ad un sesso piuttosto che ad un altro etc etc ) piuttosto che l’epicentro di un progetto espositivo. È una strada percorsa da molto tempo nell’area istituzionale del sistema dell’arte. Il risultato, per quello che mi riguarda, è spesso deludente, trovandosi, lo spettatore, non di rado di fronte a testimonianze di vita in forma di oggetto piuttosto che ad opere d’arte vere e proprie. Questa prospettiva sull’arte assolutamente legittima, anche se non condivisa, estromette però dal suo campo di indagine alcuni macro-fenomeni che, a mio parere, hanno un impatto molto maggiore e che stanno, infatti, modificando enormemente la produzione artistica mondiale e quindi anche il sistema dell’arte.
È da alcuni anni che mi colpisce moltissimo, per esempio, la grande diffusione internazionale di una nuova pittura figurativa senza compromessi che utilizza il potere comunicativo della pittura per trasformare le nuove narrazioni dell’oggi in dipinti spesso anche molto belli ed efficaci. Questo fenomeno avviene indifferentemente in tutti i continenti, Africa compresa. Pochi decenni fa la cosa sarebbe stata considerata strutturalmente inconcepibile visto che la pittura figurativa, per il sistema dell’arte, si considerava che non facesse altro che passare da momenti di morte assoluta a risvegli comatosi di breve durata. È da tempo che segnalo quanto l’impatto dei social sul sistema dell’arte e la conseguente disintermediazione in atto, non possa che avere come conseguenza immediata una ripresa di interesse verso l’arte figurativa.
https://artpulsemagazine.com/how-many-of-you-saw-the-gorilla-or-the-return-of-mural-painting
Ho perciò l’impressione che l’adozione della modalità che definisco “anagrafica”, nella scelta degli artisti, sia la maschera di una strategia adottata per cambiare tutto senza cambiare nulla. Con l’adozione di questo tipo di paradigma, si tende ad ignorare alcuni importanti cambiamenti in corso, e si continuano invece ad applicare, in una logica espansionistica a nuove aree geografiche, che di volta in volta vengono identificate, i vecchi criteri di scelta. Ritengo che non sia un caso che la nuova direttrice della Biennale, sicuramente bravissima e molto competente, sia la curatrice di un museo aperto da un collezionista tedesco in Sud Africa e la sua formazione professionale sia avvenuta in Svizzera.
Il sistema, fortemente in crisi proprio per le pressioni a cui è sottoposto, che rischiano di disintegrarlo, si rifugia in una soluzione di comodo: quella di una linea anagrafico-antropologica che, nel mentre mostra di aprirsi a “nuove” realtà cultural-geografiche, garantisce la preservazione dei vecchi criteri di scelta in campo più strettamente artistico. Ho l’impressione che la Biennale, che dovrebbe monitorare i reali cambiamenti in corso, così facendo, invece, appoggi una linea che definirei di tipo evasivo e conservatrice di un sistema oggi in forte crisi. Sono pronto però a ricredermi nel caso venissi contraddetto dai fatti.