Toni, mezzitoni, pallidi o “atoni”: una breve rilettura del colore, con una certa passione per quelli di Tiziano e Veronese, per anticipare un 2025 ben tinteggiato…
Che sia un problema non direi. Ma che le mie scelte cromatiche in fatti artistici ricadano spesso sui bianchi e neri si può facilmente intuire dal programma della galleria o di Settantaventidue. Del resto il bianco va bene con tutto e i tagli del Fontana, quando sono bianchi, costano anche più degli altri. Anche se io, in realtà, sono sempre stato circondato dai colori e ho addirittura una madre che si chiama Rosa e una bimba che di nome fa Viola. E persino la mia primogenita, che si chiama Olivia, se non avesse una “i” di troppo sarebbe un tipo di verde scuro, detto anche militare perché mimetico. E poi mi ha sempre incuriosito quel saggio di Goethe del 1810 che si contrappone alla teoria di Newton sostenendo che non è la luce bianca a scaturire dalla sovrapposizione dei colori ma il contrario addirittura. E pensare che a Goethe la passione per la cromia era nata proprio dal suo viaggio in Italia osservando i paesaggi nitidi e coloriti che lo appassionavano anche più dei capolavori d’arte antichi. A me invece i quadri antichi mi hanno sempre colpito anche più dei tramonti, particolarmente durante i miei studi, e sono sempre stato attratto più dall’artefatto umano che dal mondo vero e potrei quasi sostenere che, prima ancora che in certi testi importanti, ho capito i colori guardandoli nell’arte: il verde Veronese, il rosso Tiziano o il rosa Tiepolo, a cui Roberto Calasso ha dedicato un bellissimo libro. Il rosso Tiziano soprattutto, che è quella tonalità di rosso che il maestro utilizzò per le chiome rossastre-dorate delle sue dame. Lo si trova agli Uffizi nella Flora, donna dalla bellezza ideale ritratta a mezza figura, con i capelli che si posano sulla spalla, semi-vestita con quell’ampia camicia bianca dalle infinite pieghe che le sta per ricadere di lato scoprendole quasi un seno ma che fa in tempo a sorreggere con la mano, insieme al mantello rosato.
E lo stesso color di zazzera si ripete così tante altre volte da farne un marchio di fabbrica, o meglio di bottega: nella placida Salomè della Galleria Doria Pamphilj, nella Venere Anadiomene di Edimburgo che esce dalle acque del mare districandosi i capelli e compiendo una torsione che in avanti la fa leggermente piegare, nella Donna allo specchio del Louvre che si affaccia dal parapetto toccando con la mano sinistra una boccetta e che si accarezza la chioma con la mano destra, mentre l’uomo alle sue spalle le regge lo specchio del titolo permettendoci di vedere il lato posteriore della signora e la finestra che la stanza illumina. E quel rosso ritorna, puntuale come la passeggiata mattutina di Kant, nell’Assunta dei Frari e nella Bella dalla veste azzurra che è considerato un capolavoro della ritrattistica, o in tutte le donne dalla bellezza ideale con la tipica testa reclinata che il Tiziano ci ha regalato e che sono tutte illustrate in un libro da 744 pagine che ora sto sfogliando e forse è meglio se mi fermo.
Il suo rosso tipico Tiziano lo otteneva combinando i rossi provenienti da tre regni: minerale per il cinabro e l’ocra, vegetale per la robbia, animale per il vermiglione e per il carminio, macinati tra loro fino ad ottenere quelle particolare sfumatura che è passata alla storia dell’arte italiana e non solo. Per onor di cronaca va detto che Tiziano usò anche un rosso diverso da quello suo specifico, ma cambiamo pure gradazione e autore per vedere il verde Veronese. Il Veronese è un verde molto intenso che spazia tra il verde smeraldo, il verde malachite e il verde giada, almeno così si dice, e pare sia parecchio usato nelle decorazioni delle cucine inglesi. Ma, aneddoti anglosassoni a parte, la tinta non sembra essere stata inventata dal pittore Paolo Veronese che, secondo Guido Piovene, era il pittore veneto più consanguigno al Goethe, che dunque ritorna in questo scritto e chissà che a forza di nominarlo non lo si riporti in vita per la seconda volta, come accadde al barone famoso del lago d’Orta. Il verde veronese infatti non era un colore ma una tecnica utilizzata dalla metà del Quattrocento, già nota nel secolo precedente, e che consisteva nello stendere una mano di resinato di rame su una mano di verdirame, bianchetto di piombo e giallo piombo-stagno, a sua volta steso sopra un’imprimitura di bianco di piombo.
Ma bando al lato tecnico: dove lo si vede, il verde Veronese? Sulle spalle del maestro di casa Levi intento a impartire ordini per la cena sulla cima sinistra della scala, nell’abito che ricopre l’accompagnatore di Efestione e Alessandro durante l’incontro con la famiglia inginocchiata di Dario, gran re dell’impero Achemenide, sconfitto nella battaglia di Isso, secondo John Ruskin “il più prezioso Veronese del mondo”, o nella Virtù che sceglie Ercole, combattuto tra lei e il Vizio sconfitto, nonostante gli abbia strappato una calza e gli mantenga la mano rivolta. E, in realtà, in molto altro dall’autore concepito che val la pena cambiare registro e cercare il Rosa Tiepolo. Ma sarà poi mai possibile che questi colori siano tutti in Veneto? Il rosa Tiepolo “è un colore che colpisce e poi facilmente si perde”, è Calasso che scrive, ma che per “Proust doveva toccare un punto nevralgico” la cui apparizione era “un barbaglio, fuggevole e definitivo”.
E il suo rosa c’è nell’Armida abbandonata da Rinaldo, nel soffitto di Palazzo Clerici o nell’atmosfera generale che riveste la volta dello Scalone d’onore della residenza del principe-vescovo Von Greiffenclau a Würzburg, e a dire il vero un po’ ovunque in quel che dipinse. Ma per continuare la festa dei colori e avvicinarci ai nostri giorni, quando ormai i pittori si chiamano artisti, mi sento in dovere di nominare l’International Klein Blue, creato e brevettato dallo stesso Yves Klein con la collaborazione del produttore di vernici Edouard Adam, che è una tonalità di colore blu oltremare molto profondo e con il quale Yves fece monocromi, impronte, Veneri e schiavi morenti. E inviterei poi alla festa anche Jorrit Tornquist, che si interessò inizialmente alle teorie di Rudolf Steiner e alle forze spirituali che nell’attività dei colori si celano. Fu così colpito dall’azione delle tinte sull’organismo umano che indagò lo spettro in tutti i suoi aspetti, considerando le influenze che i diversi colori provocano sulla nostra psiche e loro applicazioni pratiche. Il frutto del suo studio si legge in un libro dal titolo “Colore e Luce” e i suoi contributi cromatici sono stati offerti per l’inserimento di edifici e strutture architettoniche nei vari ambienti, come le case popolari nei dintorni di Torino, depuratori e termovalorizzatori qui vicino.
E avendo dovuto camuffare certi alti edifici, l’azzurro cielo è spesso il colore a cui Tornquist è associato. Per il nero di Kapoor lasciamo stare, che non vale come colore, anche se tutto è relativo, persino il tempo, che quando faccio la cyclette non passa mai di un secondo. E anche perché nel prossimo anno, per ogni sera che dio ci manda, conviene sperare in tinte più vivaci e cercarle un po’ ovunque, come John Cheever faceva sempre. Proprio nei suoi diari, che mi è capitato di leggere l’altro giorno in Feltrinelli mentre aspettavo qualcuno che doveva raggiungermi a Milano ma era in clamoroso ritardo con un treno, che quasi Colombo ci mise di meno, ho scoperto che John cercava di registrare le infinite variazioni della luce: “un cielo zaffiro”, c’è scritto a pagina 228, “una luce fredda e gialla”, poco dopo, e “un cielo bianco alle otto, bianco come la neve senza nuvole e così brillante che ti fa alzare gli occhi verso l’alto, con un leggero dolore”. Che dire. E mentre guardo il mio albero di Natale, a dire il vero piuttosto pallido, auguro a tutti buone vacanze e uno splendido nuovo anno.
Nicola Mafessoni è gallerista (Loom Gallery, Milano), curatore (Settantaventidue, Milano) e amante di libri (ben scritti). Convinto che l’arte sia sempre concettuale, tira le fila del suo studiare. E scrive per ricordarle. IG: nicolamafessoni