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L’occidente sta perdendo la presa sull’arte contemporanea? H.H. LIM, Luca Nannipieri, Pier Luigi Sacco

H.H. LIM, Luca Nannipieri, Pier Luigi Sacco H.H. LIM, Luca Nannipieri, Pier Luigi Sacco
H.H. LIM, Luca Nannipieri, Pier Luigi Sacco
H.H. LIM, Luca Nannipieri, Pier Luigi Sacco

Critici, artisti, direttori di museo, giornalisti riflettono sui nuovi protagonisti di una scena dell’arte contemporanea un tempo presidiata dall’Occidente

Sì, lo sappiamo bene, le categorie – Occidente, terzomondo, periferia – sono da tempo materia archiviata dal dominante globalismo. Da decenni il dilagare della comunicazione ha azzerato ogni distanza, garantendo ad artisti, critici, studiosi di ogni angolo del globo pari opportunità di intervenire nelle dinamiche socio-culturali. Una grandissima conquista di civiltà e di crescita. Eppure è sotto gli occhi di tutti che questo indispensabile riequilibrio sia presto sfuggito a logiche razionali, viziato da influenze ideologiche e politiche, che nei massimi sistemi nascondono sempre spinte finanziarie.

Fino agli anni Ottanta, inutile confutarlo, le redini del “sistema dell’arte” erano – salvo sporadiche eccezioni – saldamente nelle mani di attori che per semplicità definiremo “occidentali” (europei, anglo-americani). Dagli anni Novanta, grazie all’azione di diversi studiosi illuminati – Harald Szeemann, Jean-Hubert Martin, per citare qualcuno – sono iniziate ad emergere istanze “periferiche”, stimoli nuovi provenienti da realtà spesso ignorate, capaci di immettere ossigeno in un contesto non di rado asfittico e tendenzialmente autoreferenziale.

Risultati contrastanti

Negli ultimi anni, tuttavia, a questo salutare “revanchismo” si va sostituendo un meccanismo uguale e contrario al vizio originario. Oggi molti segnali sembrano voler affermare una aprioristica superiorità di quanto emerga da realtà vittime del lungo oblio. Con risultati spesso contrastanti, quando non del tutto scollegati all’oggetto fulcro di ciò che definiamo come “arti visive”, ovvero la qualità intrinseca di un’opera. Paradigmatico quanto avvenuto nel 2020, quando la seguitissima Power 100 List stilata dalla rivista ArtReview pose al primo posto il movimento Black Lives Matter. E gli esempi a conferma di questo trend sarebbero infiniti.

 

Harald Szeemann
Harald Szeemann

Anche la Biennale di Venezia, che resta il più importante evento internazionale per l’arte contemporanea, pare adeguarsi ai nuovi standard. Dopo una mostra ampiamente – per molti troppo – inclusiva come quella del brasiliano Adriano Pedrosa, ora arriva la direzione della camerunense Koyo Kouoh. Nulla da eccepire, ovviamente, sulle capacità dei personaggi coinvolti, del resto avvalorate da importanti curriculum. Ma una domanda si impone: davvero gli “occidentali” hanno improvvisamente perduto ogni capacità di leggere la realtà contemporanea? Da qui avviamo un’inchiesta nella quale coinvolgeremo critici, artisti, direttori di museo, giornalisti, galleristi. Certi di proporre un approccio provocatorio, e anche divertente…

H.H. LIM

L’arte contemporanea svolge un ruolo fondamentale nel creare una sorta di Star System, un sistema di protagonismo pensato per attrarre un numero sempre maggiore di appassionati a livello globale. Questo processo è per mantenere vive le idee dell’arte, favorire nuove tendenze che si oppongono alle formazioni prestabilite e stimolare la partecipazione attiva di istituzioni, critici, curatori, galleristi e collezionisti. Insieme, questi attori collaborano per promuovere la nascita di nuovi artisti protagonisti, contribuendo così alla formazione di nuovi movimenti e visioni. È un processo quasi automatico, che garantisce la vitalità dell’arte finché essa rimane parte integrante della società.

La storia dell’arte occidentale è stata scritta e pensata interamente attraverso una prospettiva culturale eurocentrica, paragonabile, per la sua influenza, a quella della Bibbia. Per secoli, questa visione ha spinto il resto del mondo a seguire regole e modelli imposti da tale prospettiva. Consolidatasi durante l’epoca del colonialismo culturale e del capitalismo consumistico. Tuttavia, in tempi più recenti, la necessità di individuare nuove risorse ha portato l’Occidente a volgere lo sguardo altrove, rendendo essenziale un’interazione più ampia con le culture non occidentali.

Nelle regioni del mondo non occidentale, in particolare in Oriente, dove vive quasi tre quarti della popolazione globale, si osserva una forte fascinazione per l’arte occidentale. Questo interesse nasce dal desiderio di comprenderla a fondo, sia sul piano linguistico che economico, per competere e integrarsi in un sistema culturale ancora dominato dall’Occidente.

Il problema, tuttavia, risiede nel fatto che l’Occidente, per mantenere il proprio ruolo di ideatore dominante, ha bisogno di risorse e nuove ispirazioni. Questo lo spinge a immergersi più profondamente nelle culture non occidentali, un processo complesso e faticoso, che richiede di confrontarsi con linguaggi e visioni a lungo ignorati. Al contrario, il resto del mondo studia con attenzione la cultura occidentale, cercando di assimilarne i codici e di utilizzarli come strumenti di dialogo o condivisione.

È evidente che tale dinamica genera inevitabilmente ostacoli e contraddizioni. Tuttavia, l’arte possiede una forza che va oltre queste tensioni. L’arte è un fenomeno quasi paranormale: ha il potere di rendere visibile l’invisibile, di seguire con precisione l’immaginazione e l’intuizione, e di manifestare il sesto senso. La sua vera potenza risiede nella capacità di evocare in noi la bellezza e la meraviglia del mondo, pur senza comprenderne appieno il significato.

 

Elon Musk

Luca Nannipieri

Il miliardario Elon Musk, per esaltare l’incontro nel 2025 tra Donald Trump e la presidente italiana, ha postato su X una ricostruzione virtuale in cui i 3 sono vestiti da antichi romani, con dietro architetture e statue classiche. All’apparenza, è una sciocchezza. Ma anche le sciocchezze possono essere spie interessanti. Perché non li ha vestiti con l’abito del dragone dei sovrani cinesi, con le uniformi medagliate degli zar russi, con la kesa di Buddha, con l’abito da povero di Gandhi? Perché esiste una memoria sociale, dentro di noi, che si stratifica in secoli, millenni, per cui, anche in una società multietnica e policentrica come la nostra, sentiamo più vicini una cattedrale, un arco di trionfo o l’abito da imperatore romano, rispetto a una moschea o una pagoda, la Bibbia rispetto ai Veda induisti, “Liberté, Egalité, Fraternité” rispetto ai riti dei popoli aborigeni australiani.

Il mercato delle aste mondiali, da Sotheby’s e Christie’s, certifica questa nostra memoria di civiltà allargata al globo; la classifica delle opere d’arte più costose, vendute ad arabi, cinesi, russi, americani, ai miliardari di oggi, è infatti tutta ancora saldamente euro-centrica o angloamericana: il cosiddetto Leonardo da Vinci, venduto a 450 milioni di euro, e così continuando con i best price di Gauguin, Cézanne, Warhol, Pollock, Rothko, Picasso, Modigliani, Rembrandt. Queste classifiche generano canoni, consolidamenti, stabiliscono gerarchie, musealizzazioni, statuti educativi, manuali, indottrinamenti, toponomastiche, originano committenze sui simili, sui multipli, sulle varianti, esattamente come, all’epoca di Papa Giulio II, la Cappella Sistina e gli artisti che vi lavoravano generavano canoni seguiti poi nelle periferie, o, un millennio addietro, il Partenone di Atene, ordinato da Pericle, diveniva regola per i templi, le metope e i bassorilievi a venire (si legga il mio ultimo libro “Che cosa sono i classici“, Skira, 2024).

Ad oggi il sistema dell’arte moderna e contemporanea si stabilizza ancora su canoni euro-atlantici. Ma una maschera può divenire una maschera vuota. La memoria sociale non è immobile: è in movimento. Verso dove? Ecco questa è la grande domanda finora inevasa, a fronte anche degli scenari di guerra e di predomini internazionali che vediamo. Perché inevasa? Perché, detto alla grezza, chi se ne occupa, spesso non ha strumenti concettuali per farlo. Assistiamo ad un proliferare di curatori, direttori, gestori, galleristi che lavorano sull’arte senza avere nessun pensiero fondato, critico e storico sull’arte. Assistiamo ad Accademie di belle arti dove insegnano cosiddetti critici, curatori e artisti che hanno a malapena una pubblicazione con una tipografia di Cettolaqualunque. Oggi la vera urgenza nell’arte non è l’arte, ma il pensiero critico sull’arte.

 

La Cappella Sistina
La Cappella Sistina

Pier Luigi Sacco

Il dibattito sulla incapacità dell’Occidente di continuare a “stringere la presa” sul sistema dell’arte contemporanea rischia di distogliere l’attenzione dalla vera questione in gioco: la necessità di un ripensamento radicale delle logiche che governano la produzione, la circolazione e la legittimazione delle pratiche artistiche nel mondo contemporaneo. La globalizzazione del sistema dell’arte non è semplicemente un processo di redistribuzione del potere culturale da un centro a una periferia, ma un’opportunità per ripensare le fondamenta stesse di questo sistema. E questi ripensamenti sono maggiormente possibili nella periferia piuttosto che nel centro.

L’attuale assetto istituzionale dell’arte contemporanea, costruito su un modello di legittimazione del privilegio sociale ed economico, mostra evidenti segni di crisi indipendentemente dalla provenienza geografica dei suoi attori. La semplice sostituzione dei protagonisti occidentali con figure provenienti da altre aree culturali, pur rappresentando un necessario riequilibrio storico, non è sufficiente a risolvere le contraddizioni strutturali del sistema. Il rischio concreto è che questa apertura si traduca in una forma di omologazione globale che, invece di valorizzare autenticamente le diversità culturali, le riduca a varianti esotiche di un modello sostanzialmente immutato. La vera sfida è sviluppare nuove forme di agenzia artistica capaci di operare efficacemente in un contesto realmente policentrico, dove l’innovazione emerge non tanto dalla competizione per l’egemonia culturale, quanto dal dialogo tra diverse tradizioni e sensibilità.

Questo significa ripensare non solo i criteri di valore e le strutture di potere del sistema dell’arte, ma anche le modalità stesse attraverso cui le pratiche artistiche si relazionano con il contesto sociale e culturale. In questa prospettiva, la crisi dell’egemonia occidentale può rappresentare un’opportunità preziosa per liberare il sistema dell’arte dalle logiche di legittimazione del privilegio che ne hanno caratterizzato lo sviluppo storico. Non si tratta di rinnegare la tradizione occidentale, ma di metterla in dialogo con altre tradizioni in un processo di reciproco arricchimento che possa generare nuove forme di creatività e di pensiero critico. Solo così il sistema dell’arte potrà evolvere da spazio di rappresentazione e riproduzione delle gerarchie sociali (anche quando l’intento sarebbe, paradossalmente, quello contrario) a laboratorio di pratiche innovative capaci di interpretare e dare forma alle tensioni trasformative del nostro tempo.

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