
Ispirata ai celebri reportage di Walter Benjamin dedicati alle città in cui gli capitava di soggiornare, pubblicati da riviste e giornali negli anni ’20 del secolo scorso, inauguriamo una nuova rubrica dedicata proprio alle “Immagini di città” raccontate dai protagonisti dell’arte contemporanea, e non solo. Tentando, come nella scrittura benjaminiana, di mantenere il piglio della lucidità e della precisione, ma anche dell’evocazione e dello smarrimento del presente, per catturare l’anima di ogni luogo.
Franco Noero, Torino
La Galleria Franco Noero si trova in una zona di Torino che in questo periodo storico si sta via via arricchendo di luoghi dedicati all’arte. È una zona particolare, perché è insieme periferica e vicina al centro. Questa frase, letta da qualcuno che non conosce Torino, può apparire un ossimoro. Eppure la topografia del capoluogo sabaudo è piena di queste affascinanti contraddizioni. Lo spazio espositivo è ampio, luminoso, e soprattutto abituato ad ospitare mostre di altissimo livello. Franco Noero mi ha concesso questa intervista, in cui mi ha raccontato molto della sua storia, presente, passata e anche futura.
A marzo 2024 la tua galleria ha compiuto 25 anni, nel corso dei quali hai compiuto un percorso quasi simbolico in tutta Torino. Sei partito dallo spazio via Mazzini degli inizi, poi c’è stato quello in via Giolitti, poi piazza Carignano, la Fetta di Polenta e ora via Mottalciata…
Sicuramente sono un tipo irrequieto e il fatto di cambiare lo spazio mi è sempre stato molto congeniale. Quello attuale, però, è uno spazio molto neutrale, reattivo al punto giusto alle opere e per questa ragione non lo stiamo cambiando da un po’. Via Mazzini è stato l’inizio di tutto. Era una piccola shoebox, dove però abbiamo fatto lavorare in modo straordinario artisti che all’epoca erano miei coetanei, realizzando bellissime cose. Via Giolitti è stata una fase transitoria, ma lo spazio era molto bello, e mi ha dato la possibilità di fare delle cose più grandi e articolate. Quello che però ha caratterizzato la svolta della galleria, il modo in cui si pone nei confronti di artisti e pubblico, è stata la Fetta di Polenta. Nei cinque anni di quell’esperienza abbiamo dato l’avvio a un nuovo corso, un nuovo modo di fare galleria. Lo spazio attuale, in Via Mottalciata, è invece molto duttile. Qui si possono costruire muri, aprire dei passaggi, persino rimuovere il pavimento, volendo… E c’è una luce magnifica tutto l’anno, soprattutto nelle ore centrali della giornata. L’architetto che ha progettato il restauro, Flavio Albanese, ha avuto l’intuizione di coprire il lucernario esistente con un telo di polietilene che rende la luce molto avvolgente e dolce.
La tua storia come gallerista parte però da lontano, molto prima dello spazio di Via Mazzini…
Sì, io ho cominciato presto! A volte mi chiedo perché… (ride)
Perché? Come hai incontrato l’arte contemporanea?
La prima volta che vidi una mostra di arte moderna fu a Lugano. Ero andato con i miei genitori a Villa Favorita, dove c’era una mostra della collezione di Thyssen. Quella visita mi affascinò profondamente. Poi con la scuola andammo al Castello di Rivoli fresco di inaugurazione, nel 1984. C’era la mostra Ouverture. Mi colpì al punto che mi ricordo ancora la disposizione di certe opere. Fu così che cominciai a interessarmi di arte. Quando capii che non ero sicuramente un artista, vidi che c’erano altre possibilità e quella della galleria era la più affascinante per me. Ho avuto la possibilità di cominciare lavorare molto presto in una galleria, da Philippe Daverio, a Milano, inizio anni ‘90. Eravamo in piena tangentopoli e la situazione in città era un po’ critica. La galleria aveva due sedi, una in via Montenapoleone e poi uno spazio per le sculture in corso Italia, con un bellissimo giardino. Questo fu l’inizio. Poi lavorai a Cuneo, in uno spazio della città, ma fu un esperienza nuovamente breve. E poi, per mezzo di un artista con cui avevo cominciato a collaborare, Maurizio Cannavacciuolo, incontrai Gian Enzo Sperone che mi chiese di andare a lavorare con lui a Roma. Quello fu una specie di master accelerato. Così mi trovai in questa bella galleria romana, con una storia pazzesca che potei studiare da vicino, e questo fu per me molto importante. A Roma allora c’era una grande attività artistica e culturale, e là incontrai vari artisti, tra cui Francesco Vezzoli, che allora cercava di emergere. Aiutai Francesco a fare un po’ di scouting per il suo primo e il suo secondo video. La galleria di Gian Enzo era un ambiente molto protetto, ma conoscendo Francesco, e altri artisti che poi hanno lavorato con la mia galleria fin da subito, realizzai che c’era un esigenza per me di fare qualcosa di diverso.

Oggi ci sono molti master e corsi per chi vuole lavorare nell’arte, c’è un’offerta formativa enorme. Secondo te un giovane impara di più con gli studi o con l’esperienza?
Dipende. Sicuramente ci sono delle scuole molto qualificate. Recentemente ho avuto modo di fare una lezione in Bocconi, dove studiano l’approccio al mercato dell’arte, e ho visto ragazzi molto preparati. Per me non è stato così, io mi sono messo a lavorare subito. Poi non sono mai stato tanto fermo. Penso che un giusto mix tra studio ed esperienza sia la cosa migliore. Il nostro lavoro ha una sua routine e le sue regole, ma è anche fatto di situazioni improvvise da risolvere, quindi l’esperienza è fondamentale.
Lavorare nell’arte è impegnativo…
Sì, il mondo dell’arte infatti non è solo una figata, ma un posto dove si lavora molto. Non dico come in un’officina, perché è diverso, però quasi… noi diamo la possibilità agli artisti di sperimentare e produrre nella città di Torino, dove abbiamo tra i nostri fornitori persone straordinarie, che hanno aiutato gli artisti a realizzare cose importanti. Per esempio, ora stiamo lavorando a un progetto con Anna Boghiguian, che sta sperimentando con il marmo. È un materiale nuovo per lei e sta nascendo un progetto molto interessante…
Il lavoro di Anna Boghiguian che c’è a Rivoli, The Salt Traders (2015) è eccezionale…
Quell’opera è un capolavoro. Ma anche la personale che fece nella Manica Lunga qualche tempo fa è stata una tappa molto importante della sua carriera. Nella collettiva ora in corso a Rivoli (Ouverture 2024, ndr) mi è piaciuto moltissimo il cambio di atmosfera tra una stanza e l’altra. La mostra è tutta molto bella. Ma poi si arriva da Anna, che ha ricoperto il pavimento, e lì i passi diventano felpati… ci si immerge davvero nel lavoro, è meraviglioso. Poi Anna è una persona con una qualità di pensiero incredibile.
Si può dire che, per Torino, la tua galleria abbia fatto negli anni un po’ da ponte con le tendenze internazionali? Hai molte collaborazioni con artisti stranieri, anche se tra i tuoi artisti ci sono alcuni italiani importantissimi, come Vezzoli o Favaretto, appunto.
Io e Pierpaolo Falone, che è il mio socio da molti anni, facciamo un lavoro preciso, scegliendo insieme ogni volta gli artisti, uno dopo l’altro. Non ho mai pensato di portare delle tendenze… Poi magari l’abbiamo fatto, ma abbiamo sempre lavorato e lavoriamo solo cercando di raggiungere gli artisti che più amiamo. È un privilegio enorme, che ha dei costi e delle difficoltà. Il percorso si è costruito artista dopo artista, mostra dopo mostra. E molti rapporti con gli artisti si sono poi consolidati nel tempo. È bello poter dire che questo è il sesto o il settimo progetto concepito e prodotto assieme con artisti come Starling, Vezzoli, Favaretto, Nelson… Sono tutti artisti con cui abbiamo fatto delle mostre strepitose e importanti.

Fino a qualche anno fa si diceva che Torino era la capitale dell’arte contemporanea. È ancora così?
Torino ha sempre questa strana tendenza a voler essere capitale di qualcosa… Ma non siamo capitale di nulla! Lo siamo stati nell’ottocento, poi siamo stati la capitale dell’auto, ma poi diventa complesso… Certamente, qui ci sono state delle cose straordinarie, è nato un movimento come l’Arte Povera, che è una delle forze di questa città. Alla mostra alla Bourse de Commerce di Parigi, che si è appena conclusa, Torino era scritta su tutti i muri, praticamente in ogni sala. Sicuramente i musei cittadini fanno tesoro di questo. Però ora tante cose sono cambiate. Una volta il Castello di Rivoli era l’unico museo di arte contemporanea in Italia, ma adesso non è più così. Per fortuna in Italia ora si sono tanti musei dedicati al contemporaneo, e di una qualità eccezionale, come collezione e programma. Roma, per esempio, si è dotata di un museo e di una collezione importante, ma ci sono tantissime realtà. Noi forse abbiamo perso qualche primato, ma siamo qua e dobbiamo cercare di tornare non capitale, ma rilevanti nel panorama internazionale. Però per farlo dovremmo avere una regia, chi fa politica dovrebbe cercare di immaginare il futuro. Una volta c’era una visione in questo senso. Ora, certo, non ci sono i soldi di una volta, ma dovremmo cercarli con un approccio semplice. Una grande città con una storia, come Torino, dovrebbe avere un serio programma di arte pubblica. Noi abbiamo già alcune opere pubbliche importanti. In Largo Orbassano c’è Per Kirkeby, lì silenzioso, una presenza monumentale. E la straordinaria fontana di Merz in Corso Mediterraneo. Forse si dovrebbe aggiungere un altro grande intervento urbano. Almeno uno ogni dieci anni. Questo dell’arte pubblica è un esempio, ma dovrebbe esserci una visione, una regia, e l’arte e la cultura contemporanea dovrebbero far parte di questa visione. Abbiamo adesso due nuovissimi direttori di museo molto bravi, Manacorda e Bertola, a cui aggiungo Davide Quadrio del Mao, che sta facendo programma interessante e può aprire dei ponti molto importanti.
Quali saranno, invece, gli sviluppi della tua galleria nel prossimo futuro, anche all’interno del contesto cittadino?
Non è un momento semplice né a livello economico, né ad altri livelli. C’è una crisi di valori, un cambio generazionale importante anche nel collezionismo italiano. Ma guardando le cose in modo positivo, cosa che dobbiamo assolutamente fare, noi di progetti ne abbiamo tanti. Stiamo lavorando a due mostre che saranno molto importanti per la nostra stagione. Dopo quella di Martino Gamper, che è stata la terza con lui, a marzo avremo una mostra con la Fondazione Mapplethorpe, che rappresentiamo dal 2012 e che per noi è uno straordinario territorio di ricerca. A maggio, invece, ci sarà una primissima per noi, una mostra a cui stiamo lavorando con grandissima attenzione, con Pierpaolo Calzolari. È un progetto molto amato e molto voluto da lui, con un tema che sveleremo più avanti. Ne siamo molto felici.

Ma a proposito del cambio generazionale nel collezionismo… secondo te si può educare al gusto?
Beh, il mondo è vivo, ampio e allegro. L’arte ha una parte molto importante anticipatrice di tantissime cose, ma giustamente è qualcosa che non deve essere imposta. Però c’è un’arte che riesce ad entrare dei musei. Ci sono aspetti che a me interessano meno e ad altri di più. Mi è capitato di avere dei collezionisti che mi hanno detto “tu sei i miei occhi”. È una grande responsabilità. È capitato di costruire, negli anni, intere collezioni, arrivando ad avere quasi carta bianca, e giorno per giorno, mese per mese, anno dopo anno assicurare le opere migliori a collezioni che via via crescevano. È una cosa rara, molto interessante. Poi siamo seguiti da collezioni già importanti e, sempre negli anni, abbiamo avuto un’attenzione particolare da collezionisti che hanno scelto il nostro lavoro come riferimento. C’è anche qualcuno che ci cerca per un determinato artista… Insomma, educare al gusto può capitare, e sicuramente mi è capitato di dare un imprinting molto molto forte alle scelte di collezioni importanti.
MCS: Ora ti propongo una citazione. È di Brian Eno (What Art Does, 2025). “Stop thinking about art works as objects and start thinking about them as triggers for experiences. What makes a work of art good for you is not something that’s already inside it but something that happens inside you.”
Brian Eno è un personaggio straordinario… Non ho mai pensato all’arte come oggetto, anche se le opere oggetti sono, molte volte. Sicuramente la galleria lavora con molti artisti che hanno un approccio molto scultoreo. Martino Gamper, per esempio, essendo a metà strada con il design, ha una visione d’artista con oggetti che hanno anche una funzione, li puoi usare. È uno straordinario artigiano, che è una parola bellissima. Però l’arte tante volte è un gesto, ha una profondità diversa che trascende dalla fatticità stessa dell’oggetto. A volte l’oggetto è un po’ la rappresentazione, un po’ un feticcio di tutto quello che è stato un processo straordinario creativo e di ricerca.