
Chi è un bravo artista? E quali caratteristiche, e carattere, deve avere? Deve avere “stile” o deve avere un “esito”? Queste e altre domande, e relative risposte, da parte di un gruppo di “addetti ai lavori”, in questa nuova puntata de Il Sole allo Zenit
“Tre ingredienti assicurano il successo di un’opera d’arte, ma nessuno li ha mai scoperti”, pare scrisse sessant’anni fa W. S. Maugham. La stessa problematica potrebbe valere per la fama di un artista e, almeno una volta, quasi tutti noi abbiamo cercato di dar al quesito risposta. Tempo fa avevo provato a toglier le castagne dal fuoco interpellando altri addetti ai lavori con preziosi pareri professionali del nostro amato settore che, oggi più che mai, avrebbe bisogno di ordine. L’occasione per il sondaggio mi venne nel 2012 mentre preparavo una lezione per un’Accademia locale e faceva parte di un’indagine volta a rivelare il possibile distinguo tra un buon artista e uno che lo è meno, rivolta a menti disponibili e appassionate che si presero a cuore la questione. La prima domanda fu posta, tra i corridoi di una fiera, alla persona perfetta per dare il via alla ricerca: Seth Siegelaub, curatore, collezionista, editore e quasi tutto, persino gallerista per un solo triennio che gli bastò ad apportare incredibili innovazioni nella smaterializzazione delle mostre e degli oggetti artistici. Fermando il sorridente Seth per una breve chiacchierata piuttosto emozionata ottenni la seguente risposta inaspettata: “il valore di un artista si valuta dall’influenza che ha sugli altri autori“. Illuminante e rapida soluzione, che mi convinse poco, a dire il vero, e che non presi come oro colato. Perché? Mi spiego. Secondo il mio parere non teneva conto di certi stili talmente personali e privi di formula da non poter essere trasmessi ai seguaci e che per questo si perdono nel nulla. Ma qui ovviamente fu mia la colpa perché non ebbi né il tempo né la prontezza di continuare ad approfondire. E chissà se Seth intendeva un’influenza sui colleghi contemporanei o su quelli futuri o se considerava, ad esempio, il pensiero di Bernard Berenson riferito al Lotto e al suo contesto, quando sentenziò che non fecero poi molta strada il Caversegno, Antonio da Faenza, Camillo Bagazzotti, Durante da Force e Girolamo Colleoni, allievi più giovani, aiutanti o imitatori, annoverati tra le fila dell’introverso autore, mentre altri pittori colleghi rivali ne subirono immediatamente l’influenza, come il Previtali, il Palma, il Moretto, il Savoldo, il Moroni, il Beccaruzzi, e Lotto in certi casi subì la loro. Senza poter più togliermi il dubbio continuai comunque il mio compito, di cui qui riassumo l’esito.

Jonathan Monk ammise di non saper subito come distinguere un bravo artista da uno pessimo addirittura, ma mi disse che una certa aria di fiducia e delle buone scarpe mi avrebbero potuto dare indicazioni preziose. Non sarebbe certo una strada chiara e ovvia questa, a suo dire, ma nemmeno il successo lo è secondo Jonathan, che si è reso conto di conoscere parecchi artisti terribili che hanno generato lauti profitti e altri dal lavoro interessante che come persone non lo sono per niente. Secondo lui certi autori riescono poi a essere anche fastidiosamente furbi ed è bene essere pretenziosi, fintanto che si capisce di esserlo, ma la professionalità nell’arte è una cosa terribile e l’appassionato di talento è ciò che gli artisti vorrebbero essere.
Ariel Schlesinger sottolineò il rilievo della costanza e portò l’esempio del bravo artista che realizza opere non riuscite e che, se succede, si deve tranquillamente accettare poiché la produzione di lavori particolarmente sfortunati fa parte comunque delle varie incognite. Allo stesso tempo, e per par condicio, non sarebbe da considerare l’artista meno valido che ottiene un’opera dal buon esito. Il bravo artista, del resto, deve quotidianamente esplorare e controllare i confini della sua pratica con idee o temi generali, tentando di spingere sempre un po’ in là i confini.
Vadim Fishkin mise al primo posto la profondità del lavoro nonostante anche per lui sia fondamentale conoscere altre opere dello stesso autore per capire di non trovarsi di fronte a una coincidenza casuale. Per lui sarebbe cruciale anche il “coefficiente di efficienza”: se si capisce che l’opera è ricca di abbellimenti e presenta molti strati o citazioni, conviene esser subito sospettosi. Attribuisce poi alla sintesi la buona riuscita di un’opera d’arte e critica certi lavori che sono frutto solo di studi e che sembrano lunghi dottorati. Poiché anche se l’arte è una disciplina intellettuale non basta fare un’analisi e unire le informazioni ma occorre uscire dall’ambito della conoscenza per entrare in quello dell’interpretazione.

Ignacio Uriarte rispose alla domanda con alcuni criteri precisi, partendo dal presupposto che un bravo artista è colui che è in grado di aggiungere qualcosa di nuovo alla storia. Immaginando quest’ultima come una mappa geografica con strade, fiumi e ogni sorta di collegamento tra diversi paesi e regioni, un valido artista è in grado di aggiungere un piccolo pezzo di terra a quella che già si trova. Ammette che è molto difficile inventare qualcosa di completamente nuovo ma basta modificare o mescolare discorsi e pratiche precedenti per creare novità partendo da un passato concreto che si deve conoscere in toto. Senza una conoscenza della storia dell’arte innovare oggi è quasi impossibile, anche se il mondo cambia ogni minuto e ora più che mai la trasformazioni avvengono rapide. Secondo Uriarte l’artista bravo lavora in quella dicotomia tra il vecchio e il nuovo, dev’essere onesto e parlare di argomenti che conosce bene e che vive in prima persona. Conta anche sviluppare nuove tecniche e linguaggi visivi a partire dall’esperienza e dalle abilità personali. Buoni esempi per lui sono Richard Artschwager, in termini di tecnica, e Paul McCarthy in relazione alla biografia. Conviene poi che l’artista trovi un percorso che non sia già stato troppo affrontato, senza che si seguano quelle mode che rischiano di far perdere interesse a breve. Evitare le tendenze e non essere mai davanti, sempre in seconda fila: presenti ma mai di moda, o parte di una grande scuola. Così dev’essere il bravo artista, secondo la sua ottica. Infine regala un consiglio: se si ha la pretesa di fare qualcosa di unico è preferibile avere una pratica che richiede molte ore e molti sforzi per conseguirla, così che alla maggior parte degli artisti risulterà troppo laboriosa. L’insistenza su un’idea è infatti molto importante perché permette di portarla all’ultima conseguenza, di giocarci attorno e cercare tutte le possibili variazioni fino a che possa essere associata definitivamente all’autore, facendolo diventare unico e originale.
Vasa J. Perović, architetto e amico, proseguì su altri criteri e rintracciò quattro fasi di analisi per il riconoscimento di un buon lavoro. La fase dell’attrazione viscerale, visiva e narrativa, che inizialmente attira lo spettatore e che ha in sé la capacità di comunicare, anche con poetica e umorismo, tanto per restar nella sfera di suo gradimento. La fase della coerenza della produzione, comprovata dalla ricerca, per la quale vanno studiate le opere più datate e le più recenti, con una panoramica che dimostra la continuità e un costante livello di qualità. La fase della precisione, intesa come la capacità di mantenere il lavoro coerente attraverso la serie, e infine la fase dell’ambizione che riguarda la direzione che l’artista ha deciso di intraprendere: più in alto si punta, maggiore sarà la possibilità di raggiungere la vetta.
Rodrigo Hernández mi confidò che un buon artista deve saper proteggere il modo in cui vede le cose, i suoi soggetti e i suoi temi, come se stesse mantenendo dei personalissimi segreti. Gli piace come questo atteggiamento crei tensione con il pubblico, che in qualche modo riceve una luce splendente proveniente da quel segreto ben tenuto. Questo è ciò che rende l’opera d’arte qualcosa di reale, quando non appartiene a tutti ma è riconducibile al solo artista, che invita a vedere con i suoi occhi e seduce l’osservatore.
Paolo Icaro sostenne innanzitutto che si dovrebbe riuscire ad accettare ciò che viene proposto e di vivere nella contemporaneità, in confusione. In tutta l’acqua torbida del contemporaneo bisogna aspettare che le cose resistano, che non scompaiono o si dimentichino. Le cose che resistono per un certo tempo allora sono utili alla società e l’artista risulta utile a sua volta. Come diceva Dostoevskij “la bellezza salverà il mondo” ma la via per la bellezza è l’arte, la pratica dell’arte. E più che bella l’arte deve essere utile. Qualche esempio culinario: se il cibo che si fa è commestibile va bene, ma se è molto buono e gustoso come il pane, dalla Puglia al Cile, allora ha un successo mondiale. Un bravo artista deve diventare pane altrimenti rimane mollica, e tante proposte che sono al limite del commestibile. Si sa che ci sono tanti pesci ma sappiamo che l’orata è più pregiata dello scorfano e lo scorfano va bene per il brodo. Il pane è la base. Ci sono artisti che sono stati capaci di lavorare sulla base, sulla parte strutturale, e deve essere strutturale il lavoro del quale ha bisogno la società in futuro. Come ancora oggi sono utili Dante e in altro modo Manzoni, o John Cage. Proprio John Cage ha ispirato moltissimi musicisti e il minimalismo musicale senza di lui non può esistere. E strutturali sono Bach, Vivaldi e tutti i clavicembalisti. O Luciano Berio, che ha composto brani che non vengono suonati molto, ma senza i quali tutto un modo di ascoltare verrebbe meno. Erik Satie è un altro dei maestri. Ascoltando le lezioni di musica alla radio si può ben capire quanto diversi siano i musicisti e quante volte un tema sembri galleggiare su sé stesso. È come andare in un museo e iniziare ad analizzare un’opera di Van Gogh, staccando le pennellate. Bisogna essere strutturali per fare quel lavoro, se invece si è superficiali l’opera piace o meno. E così non ci chiediamo cosa si può vedere, ma quante cose ci sono all’interno e come funziona la convivenza tra gli elementi. È come analizzare una frase a scuola: il soggetto, il verbo, il complemento. Quando poi ci si avvicina a un lavoro che affascina lo si interroga ma si è anche interrogati, perché deve instaurarsi un giusto dialogo, anche se la contemporaneità è in un posto dove tutti urlano.


Paul Gees ritenne che un buon artista è colui che segue le proprie intuizioni ed è costantemente occupato dall’evoluzione formale e sostanziale del suo lavoro. Solo colui che è cosciente e può collocare il suo percorso in relazione alla storia, ad altre espressioni artistiche, al lavoro di altri e alla storia dell’arte in particolare può tentar di cercare l’autenticità o una firma riconoscibile. Così il suo lavoro si spiega da sé, riflettendo o trasformando le sue intenzioni in modo plastico, qualunque cosa l’azione implichi. Massimo Minini constatò che è solo nel lungo termine che emerge la qualità dell’autore e che nel breve o medio periodo non si può davvero capire, mentre Gregor Podnar puntò sull’ossessione che deve aver l’artista come indispensabile caratteristica. Jan Dibbets mi disse che il bravo artista deve interrogare il mezzo che utilizza e proporre novità nell’ambito della ricerca, mentre con la risposta di Peter Downsbrough ho dovuto porre momentaneamente fine alla mia inchiesta: “il vero artista non si può capire”, e io più di questo commento non potevo chiedere. Sarebbe però interessante un giorno arricchire questo episodio, dunque se avete opinioni a riguardo scrivete pure al mio indirizzo. Grazie e a presto.

Nicola Mafessoni è gallerista (Loom Gallery, Milano), curatore (Settantaventidue, Milano) e amante di libri (ben scritti). Convinto che l’arte sia sempre concettuale, tira le fila del suo studiare. E scrive per ricordarle. IG: nicolamafessoni