
Struttura, materia e colore. Franco Giuli con Piero Dorazio 1969-1975 è un progetto culturale e commerciale di successo. La mostra di 10 A.M. ART – visitabile in galleria, a Milano, fino al 28 marzo 2025 – ha venduto tutte le opere esposte rilanciando l’artista nel panorama internazionale.
Poche gallerie in Italia possiedono una visione chiara e particolare come 10 A.M. ART. L’interesse per la percezione visiva, l’arte cinetica, programmatica e optical la posiziona in un immaginario quasi isolato, sottile come il fascino di un genere cerebrale, ma anche giocoso e talvolta ironico, inimitabile se non da se stesso. Il modo in cui ne esplora l’universo – nella sua galassia italiana (ma non solo), in cui ne valorizza le peculiarità attraverso i suoi interpreti, noti e meno noti – partecipa a dettagliare la geografia del genere oltre le mappe più conosciute. E apre una via. Solo due casi significativi: Marina Apollonio, arrivata in mostra al Guggenheim di Venezia, e Lucia di Luciano, ricercata dai musei di mezza Europa e presente a Frieze Masters 2024 con la galleria milanese. Ma sono diversi i casi in cui 10 A.M. ART, favorendo la crescita di un autore, o cogliendo del fermento attorno ad esso, sempre tenendo vivo il dialogo con archivi e istituzioni, è riuscita nel suo raffinato intento culturale. Attributi che si condensano in identità, identità che si declina in un metodo.
Metodo che coinvolge anche Franco Giuli (1934-2018). Informale negli anni Cinquanta, l‘artista di Fabriano trova esaltazione espressiva nell’astrazione geometrica, ambito che dai Sessanta in poi non lascerà più, generando superfici prospettiche dove i fattori luce-spazio-colore-forma assumono un ruolo centrale. Come racconta la retrospettiva meneghina, intitolata Struttura, materia e colore. Franco Giuli con Piero Dorazio 1969-1975, realizzata in collaborazione con Lorenzelli Arte (a proposito di fare rete, che non è mai scontato), che ha fornito due tele di Dorazio. Quasi una mostra nella mostra, un dialogo tra i due artisti, amici e collaboratori che si scambiavano analogie formali e sensibilità umane. Il focus non devia però dall’obiettivo di 10 A.M. ART, il fine ultimo del metodo descritto: riposizionare Giuli al centro del panorama artistico contemporaneo, come lo è stato in passato, prima che il suo carattere schivo e la ritrosia dall’aderire a movimenti definiti ne diluisse il ricordo nel continuo flusso dell’incedere artistico.

Questo per dire che non era solo, ma volontariamente autonomo. Attorno a lui il contesto era comune e florido (in Italia i gruppi N a Padova, T a Milano e 63 a Roma, lo Zero in Germania, l’Equipo 57 in Spagna, in Francia il GRAV, nei Paesi Bassi il Nul…), ma “Giuli ha preferito porre un distanziamento fra sé e gli atteggiamenti per così dire militanti di quella stagione” – racconta nel testo critico il curatore Paolo Bolpagni – “rivendicando implicitamente una libertà d’azione e di ricerca che fa di lui un indagatore appartato dei meccanismi della percezione e delle modalità attraverso cui le figure geometriche si definiscono sul supporto dell’opera, creando effetti di tridimensionalità, di movimento, di apparente inganno ottico“.
L’esposizione si concentra dunque sul periodo tra il 1969 e il 1975, avvolgendo quel 1972 in cui Giuli prese parte alla Biennale di Venezia. “È una fase in cui pratica la pittura ad acrilico su tela, realizzando lavori di un virtuosismo trascendentale” – scrive Bolpagni – “dai colori saturi e squillanti, di formato prevalentemente quadrato (quello che più di tutti scongiura le aggregazioni visive e i magari inconsapevoli rimandi iconici, rappresentativi), che talvolta evocano il ricordo di un macchinismo d’ascendenza secondo-futurista, alla Ivo Pannaggi“.
In sostanza, in questi anni Giuli raggiunge l’apice delle sue ricerche aniconiche, neo-costruttiviste e ottico-dinamiche. Il momento in cui mette a punto la sua forma-segno, ovvero l’elemento formale su cui fonda la propria grammatica visiva. Si tratta sostanzialmente di un piano rettangolare, che evolve, si ripete, devia con calibrata ambiguità. In tale fermento prospettico l’artista erige strutture leggere ma compatte, che seguono di volta in volta il rigore architettonico o i bagliori di edifici intervisti in un miraggio. La luce e le ombre dettano i ritmi dei percorsi visivi che Giuli dispone con calibrata vertigine, accelerazioni plastiche esaltate dalla carica cromatica folgorante. Una patina che dà spessore alle superfici, a seconda dei casi oscillanti tra le due e le tre dimensioni.

Le opere avanzano nello spazio grazie agli spigoli derivanti dagli scarti, le curve, le deviazioni che si concretizzano in diffrazioni lievi ma sostanziali. Un linguaggio pienamente astratto, che non necessita di ancore al reale. Se proprio volessimo trovare un legame con forme consuete, cedendo al contempo a un innesto biografico utile dal punto di vista narrativo, la più puntuale ed evocativa suggestione arriva da Laura Turco Liveri. In un testo pubblicato nel catalogo della grande retrospettiva che si tenne nel 2000 alla Mole Vanvitelliana di Ancona, la storica dell’arte sottolinea come Giuli abbia vissuto l’infanzia in campagna, in un contesto agricolo, a contatto con trattori e trebbiatrici. Chissà che ne abbia osservato ingranaggi e funzionamento, restandone affascinato, generando inconsciamente un immaginario che ritorna nei lavori.
Un background su cui la mostra di 10 A.M. ART non indugia affatto, lasciando che sia la poetica grafica di Giuli a manifestare la propria forza. Eloquenza che è arrivata dritta ai collezionisti, i quali hanno approfittato all’istante di questa “prima uscita” dell’artista. In un mese di mostra sono andate sold out tutte le circa trenta opere proposte. Un risultato raro a qualsiasi latitudine, che in Italia assume i crismi dell’unicità. A guardare i compratori, tra cui figurano anche istituzioni internazionali come la Nicoletta Fiorucci Foundation & Collection e il MACBA di Buenos Aires, le prospettive per il futuro sembrano sorridere a Giuli. E ovviamente a coloro che hanno deciso di puntare su di lui.
