
In una Venezia che sembra un sogno sbiadito, un posto dove i turisti si trascinano come fantasmi e l’acqua riflette palazzi che forse non esistono nemmeno. E in mezzo a tutto questo, due luoghi iconici, due mostre, due artisti che cercano di dirci qualcosa.
Partiamo da Palazzo Grassi, dove si è aperta “La strana vita delle cose”, personale di Tatiana Trouvé. Un nome che suona come un sussurro nel vento. Entri e subito vieni inghiottito da un labirinto di presenze, di cose che potrebbero essere state o che forse saranno. Sculture fatte di materiali che sembrano presi da un deposito di un rigattiere cosmico: asfalto grezzo, marmo che sembra piangere, bronzo contorto, la morbidezza inaspettata della canapa. E poi oggetti. Oggetti ovunque. Rocce silenziose, fiori che non profumano, valigie chiuse piene di chissà cosa, scarpe abbandonate come se qualcuno fosse svanito nel nulla. Lucchetti. Chiavi che non aprono niente. Radio che non trasmettono suoni. Registratori muti. Coperte che non scaldano. Libri le cui storie sono state cancellate.

Ti dicono che è un “vagabondaggio condiviso, senza origine né fine”. Bello, no? Sembra una di quelle frasi che leggi sui muri scrostati e pensi: “Wow, che profondità!”. Però poi ti guardi intorno e ti senti solo un po’ perso. Come se fossi entrato in un sogno che non è il tuo. Un sogno fatto di frammenti, di sussurri, di cose che senti di aver dimenticato ma che non sai cosa siano. È disorientante, certo. Ma c’è anche qualcosa di… magnetico. Come fissare a lungo una crepa nel muro e iniziare a vederci delle forme. Inquietante? Beh, un po’. Affascinante? Forse. Dipende da quanto ti piace sentirti come se avessi perso le chiavi di casa in un universo parallelo.

Poi prendi un vaporetto, ti fai cullare dalle onde e arrivi a Punta della Dogana. Qui c’è Thomas Schütte. Un altro giro, un altro artista che ti guarda con un mezzo sorriso ironico da dietro le sue opere. “Genealogies”, una retrospettiva. Tante cose insieme, come quando apri una vecchia scatola in soffitta e trovi un mucchio di roba che non ricordavi nemmeno di avere.
Sculture, certo. Ma anche modelli di architetture possibili che sembrano rifugi per giganti solitari. Fotografie sbiadite. Disegni nervosi. Incisioni che graffiano la superficie. E al centro di tutto, la figura umana. Teste. Un sacco di teste. Singole, come pensieri isolati. Doppie, come conversazioni silenziose. Connesse, come se fossero la stessa persona che si guarda allo specchio. Fatte di ceramica smaltata, di vetro fragile, di bronzo che porta i segni del tempo.
Volti. Alcuni urlano senza emettere suono. Altri ti fissano con occhi vuoti. Altri ancora sembrano sul punto di scoppiare a ridere. Corpi intrappolati nella materia, come se stessero lottando per liberarsi. Busti imponenti, quasi dei dittatori caduti in disgrazia, con quel vago sentore di satira che ti fa chiedere se l’artista stia prendendo in giro loro o noi. E poi corpi femminili distesi, che ti ricordano la storia dell’arte, ma con qualcosa di… storto. Qualcosa di non detto. E infine, visi senza genere, che ti spiazzano, che ti fanno dubitare di quello che pensavi di sapere.
Schütte ti sbatte in faccia questa umanità un po’ ammaccata, un po’ ridicola, un po’ patetica. C’è violenza, certo. Ma anche un’arguzia sottile. Intimità e un che di teatrale. Serietà e un umorismo che ti pizzica. Ti lascia lì a chiederti cosa ne pensa lui di noi. Cosa pensa di questa nostra buffa esistenza.

Allora te ne vai da questi luoghi, di nuovo nella folla di Venezia, con la testa piena di immagini e di domande senza risposta. E ripensi a quelle parole che vanno tanto di moda: decostruire, storia, mondi, politica, libertà, uguaglianza. Sembrano così importanti scritte sui muri bianchi delle gallerie. Ma poi guardi le opere. Guardi la strana vita delle cose di Trouvé e le genealogie inquiete di Schütte. E ti rendi conto che forse, in fondo, stanno solo cercando di dirci una cosa molto semplice. Qualcosa che non ha bisogno di grandi parole. Qualcosa che riguarda l’essere qui. Adesso. Con tutte le nostre fragilità, le nostre stranezze, le nostre piccole, disperate, meravigliose vite. E forse, in quel silenzio tra l’opera e te, c’è una risposta, anche se non sai ancora qual è.