
C’è un salone a Venezia, al secondo piano di Ca’ Pesaro, che non è più solo un salone. È diventato un ventre, un labirinto, un sogno. A riempirlo non è la luce del Canal Grande, ma qualcosa di più potente: quattordici tele monumentali, un fregio titanico, un gesto estetico che sa di rito arcaico. Si chiama “Il poema della vita umana”, e l’ha dipinto Giulio Aristide Sartorio, romano, simbolista, visionario e tanto altro. Era il 1907, ma sembra oggi.
Ora, da oggial 28 settembre 2025, quel Poema ritorna a Venezia, nella stessa città dove aveva fatto il suo debutto. Ritorna restaurato, riunito, reinterpretato. Ca’ Pesaro lo accoglie come un figlio perduto e lo espone come un’esperienza totale, in una mostra a cura di Elisabetta Barisoni e Matteo Piccolo, che è insieme retrospettiva, celebrazione e immersione.
Ma chi era Sartorio? Figlio e nipote di scultori, precoce enfant prodige della pittura, amante della mitologia e della classicità, regista ante litteram, amico di D’Annunzio, reduce di guerra, e – per quanto riguarda questa mostra – pittore di battaglie interiori trasformate in allegorie colossali. Quando il segretario della Biennale Antonio Fradeletto gli chiese, nel 1906, di decorare il salone centrale del Padiglione con un ciclo pittorico, Sartorio disse sì. Non perché fosse incosciente, ma perché sapeva di poter fare qualcosa che sarebbe rimasto.

Così nacque Il poema della vita umana, una sinfonia visiva in quattro movimenti principali: Luce, Tenebre, Amore, Morte. A questi si aggiungono dieci teleri verticali, altrettanto densi, altrettanto enigmatici. In “Tenebre”, Sartorio mette in scena una feroce invettiva simbolica contro i falsi amici, i critici ambigui, i tradimenti personali. In “Luce”, si parla di nascita, destino e maldicenze, con le Erinni che sibilano serpenti e i Dioscuri che li trafiggono in nome del padre onesto. In “Amore”, Venere Urania combatte contro Venere Pandemone, e Himeros si consegna ad Atropo. In “Morte”, irrompono i cavalli di Thanatos, seguiti dal sonno e dalle arpie.
È un poema, sì, ma anche un teatro dell’inconscio, una mappa simbolica che anticipa perfino il Surrealismo. Il tutto senza architetture, senza sfondi. Solo figure in movimento, corpi che ruotano come pianeti, un ciclo cosmico dipinto in cera, olio di papavero e acquaragia. Una tecnica rapida, quasi sciamanica, per realizzare l’intero fregio in soli nove mesi.
La mostra a Ca’ Pesaro ricostruisce quell’impresa, ripropone l’allestimento originale della Biennale del 1907, e lo amplia. Le sale successive raccontano il contesto storico, accostano al Poema capolavori coevi: Il Pensatore di Rodin, La Bagnante di Klinger, le atmosfere sospese di Galileo Chini, i paesaggi simbolisti di Ettore De Maria, le visioni rarefatte e quasi mistiche di Anna Boberg, Carl Larsson, Jean Delvin, Fernand Khnopff, e molti altri.

Qui il Simbolismo si fa geografia mentale, sogno condiviso e interrotto. Perché il tempo di Sartorio fu breve: già nel 1910 le avanguardie – Futurismo, Realismo, Dadaismo – spazzavano via i miti archetipici con la furia del presente. Ma questo fregio, oggi, ci guarda ancora. E ci parla.
La forza di questa mostra non è solo nella bellezza visiva, ma in quello che suggerisce: che la vita – come dice Calderón de la Barca, citato nel catalogo – è sogno, e i sogni, sogni sono. Ma attenzione: alcuni sogni si possono toccare.
E misurano sei metri per quattordici, pesano cento anni e tremano ancora.














