
La quarta puntata di “Immagini di città“, la rubrica ispirata ai celebri reportages di Walter Benjamin, ha per protagonista Elisabetta Di Grazia, nota come Lisa Tucci Russo
Come dico sempre, questa serie di interviste prende spunto da Immagini di città di Benjamin. Quindi partiamo dai luoghi… Mi soffermerei soprattutto suoi luoghi della galleria, ma anche, se ci sono, luoghi di Torino legati all’arte e che lei ha vissuto particolarmente…
Lisa Tucci Russo: Ci sono vari aspetti. Intanto, la definizione di luogo… Mi sembra un termine molto generico. Con Tucci ne parlavamo spesso ed eravamo arrivati a una conclusione molto semplice, che nella linea di questo discorso forse verrà chiarita meglio. Il luogo è dove accadono le cose. Non è un’entità geografica, ma un’entità mentale, che, nell’arte, implica una scelta non solo da parte di chi rende le cose possibili, sia questo l’artista o nel mio caso la galleria che ospita e appoggia il progetto, ma anche da parte di chi sceglie di venire a vedere la mostra. Questo è il mio concetto di luogo. Se poi vogliamo andare a una lettura più lineare del luogo, mi sembra che domanda sia semplice. Dove è nata la galleria?
Tutte e due le cose sono interessanti…
Certo, ma andiamo passo passo. La galleria è stata fondata da Tucci nel 1975 a Torino. Quest’anno celebra i 50 anni. La sede di Torino è stata per un tempo brevissimo, di alcuni mesi, in via Fratelli Calandra. Qualche mese dopo c’è stato il trasferimento al Mulino Feyles, che era in corso Tassoni angolo via San Donato. Era un luogo particolarmente interessante, perché era stato il granaio di Torino, praticamente dove macinavano la farina, uno spazio ex-industriale che aveva smesso la propria attività intorno alla metà degli anni ‘60. Era un edificio molto selvaggio, me lo ricordo bene perché andammo insieme con Tucci a vederlo. Aveva spazi amplissimi e permetteva una grande libertà di azione anche per gli artisti, perché non era uno spazio “educato”, poteva essere usato in modo molto libero. C’era stata anche una coincidenza fortunata: nello stesso periodo, nel 1976, anche Mario e Marisa Merz cercavano uno studio a Torino. Per cui, in questo grande spazio, tirammo su una parete: da una parte c’era lo studio di Mario e Marisa e dall’altra la galleria. Negli anni il mulino diventò anche un centro polivalente, c’era anche Assemblea teatro. Praticamente si era creato in modo naturale quello che tutti cercano sempre di fare… Lì nacque spontaneamente, semplicemente perché c’era un’architettura adatta ad ospitare un progetto come quello. Siamo stati al Mulino Feyles fino al 1990, quando cambiò la proprietà e fummo praticamente sfrattati tutti. Da lì, ognuno si è mosso indipendentemente. Per quanto riguarda noi, come galleria, abbiamo trovato per alcuni anni un altro spazio piuttosto interessante a Torino, vicino a corso Belgio, in via Gattinara. Poi c’è stato, nel 1994, il trasferimento a Torre Pellice. Lo spazio a Torino, qui, (Tucci Russo Chambres d’art, in via Bertolotti, dove ci siamo incontrate, ndr) lo abbiamo aperto nel 2017. La scelta era più che altro dettata dalla necessità di rendersi disponibili in città in qualche modo, come sta capitando a noi oggi. E poi quello che con Tucci avevamo notato e apprezzato di questo spazio di Torino è che riuscivamo a dare una dimensione più intima al lavoro. Perché la sede di Torre Pellice ha comunque delle dimensioni che danno grande libertà, però chiaramente possono anche spaventare, in certo senso…
Beh il lavoro che avete ora a Torino, bellissimo, di Gianni Caravaggio, in uno spazio troppo ampio dovrebbe essere allestito e pensato in altro modo, probabilmente…
Sì, devo dire che quello che ci ha convinti a prendere questa sede di Torino è stata proprio una complementarità tra le due sedi della galleria. Sono due spazi mentali diversi. Però, a parte l’impegno nel realizzare le mostre, che chiaramente cambia, perché tra mille metri quadrati e cento c’è un po’ di differenza, io non attribuisco un valore diverso di importanza alle mostre. È solo una dimensione diversa d’immagine. Ci sono artisti abituati ad usare spazi ampi che a volte preferiscono, a seconda del progetto che hanno, utilizzare uno spazio più piccolo. Non c’è una differenza di scelta di nomi tra una sede e l’altra, dipende dall’idea e dal progetto.

@ Galleria Tucci Russo, Torre Pellice 10.03 | 28.07.2024, Foto: Archivio Fotografico galleria Tucci Russo, Torre Pellice e Torino Courtesy: l’artista e galleria Tucci Russo, Torre Pellice e Torino
Prima mi ha detto che il luogo è dove capitano le cose… in questo senso Torino, secondo lei, è ancora un luogo?
Intanto se non capitassero cose a Torino noi non saremmo qui (ridiamo ndr). E questa è la prima risposta. La seconda risposta è che bisogna saper vedere. Perché in ogni caso è una questione di saper vedere. Non voglio metterla come capacità, ma come disponibilità interiore…
Intende essere disponibili all’ascolto, e quindi anche al rendersi conto se ci sono nuovi talenti o…?
Mah… sui nuovi talenti c’è un discorso che mi annoia da morire, perché sembra quasi una gara… sembra che bisogna scoprirli a tutti i costi… io non credo nel termine stesso, nel significato di “nuovo talento”, non riconosco questa espressione.
Talento o nuovo?
Entrambe! Non capisco cosa voglia dire. Quello che riesco a capire è il momento in cui un’esigenza creativa supera le connotazioni, e questa esigenza creativa si manifesta senza educazione. E a quel punto, se si ha la disponibilità a sentire e a guardare, si può sorprendersi, e vederla. Però il “nuovo talento” proprio non mi interessa… cercare per forza il nuovo è una cosa che nell’ambiente dell’arte capita, ma è un’esigenza di ricambio di mercato. Alla fine è qualcosa da sfruttare, il nuovo talento, ed è qualcosa che non mi tocca proprio come formazione. Non mi interessa.
Però è inevitabile, almeno visto da chi è venuto dopo, pensare che quello che capitava Torino nel momento in cui fioriva l’Arte Povera, ma anche negli anni ‘70, oggi non si ripeta più molto… Pensando a tutti questi personaggi così pieni di energia, oggi riconosciuti a livello internazionale e che sono partiti da qui, si ha un po’ la sensazione di essersi davvero persi qualcosa. C’era una temperie culturale giovane che fioriva in continuazione, producendo capolavori incredibili, che adesso è un pochino più difficile andare a trovare… poi magari è una questione di sintonizzarsi… di saper vedere, come dice lei, ma la situazione culturale sembra così diversa…
Mah… lei sta parlando di fervore! (ridiamo ndr) Però il fervore lei lo vede oggi… Percentualmente, negli anni ‘60 era una situazione non certo di quantità ma di qualità di pensiero. Perché quello che dava grande libertà a questi artisti è che non c’era un condizionamento sociale. Erano un movimento assolutamente indipendente e sicuramente di dialogo di idee e di invenzione, in cui il concetto permetteva loro l’uso di qualsiasi materiale in assoluta libertà. Nessuno poteva condizionarli, vuoi per il mercato o per altre cose. E a questo rispondeva una situazione di limitato collezionismo, elitario, ma in senso positivo. Non parlo di elitario in senso sociale, ma a livello proprio di sensibilità… Era un collezionismo che sposava le stesse idee e sosteneva un sistema. Quindi non so, io starei attenta in ogni momento del vissuto quotidiano a quello che ci sta intorno, perché poi infondo non vorrei passare dalla parte delle persone che non vedono, così come negli anni ’60 e ‘70 qualcuno non ha visto… Io vorrei sempre stare dalla parte di chi ha visto!

Questo per me personalmente è abbastanza consolatorio! Ho sempre avuto la sensazione di essermi persa, per ragioni anagrafiche, una specie di età dell’oro…
Beh, certo sono cose che non capitano tutti i giorni… Gli artisti dell’Arte Povera erano tutti della stessa generazione, erano dei ragazzi che si incontravano per parlare. È stato un movimento spontaneo. C’era una grande energia, profondità di pensiero e dibattito. Certo, era un momento storico particolare, però spero non l’unico nella vita e nella storia! Sicuramente è stata l’ultima avanguardia importante del secolo scorso, questo è innegabile. E quasi miracolosamente, anche se non più come gruppo ma in modo individuale, ha ancora oggi la stessa energia. Forse più educata, anche per costrizioni di sistema, ma ci sono momenti in cui questi artisti oggi hanno la stessa energia di allora, un’energia mentale che è rara a trovarsi.
Magari è un modo di rapportarsi a sé stessi e all’arte che fa scattare quella capacità ed energia che non si esaurisce mai?
…è mantenere un’ossessione tutta la vita. Mantenersi aperti a quell’ossessione reale che si rinnova continuamente…
A proposito di energia… Com’è stato l’approccio comune alla galleria suo e di Tucci all’inizio?
Io sono semplicemente cresciuta con una storia che era chiaramente, ed è ancora oggi, più grande di me, ma cui partecipo in modo sincero. Ho conosciuto Tucci nel 1974. Avevo 17 anni, quindi sicuramente non potevo essere una figura partecipe rispetto a Tucci che ne aveva 30. Lui aveva vissuto proprio il momento di nascita dell’Arte Povera negli anni ‘60, perché per sua formazione, essendo nato come poeta, frequentava gli ambienti culturali della città, che erano gli stessi che frequentavano gli artisti. Per cui sono diventati amici, e poi c’è stata tutta la storia insieme… Quando Tucci ha aperto la galleria, nel 1975, avevo poi 18 anni e andavo all’università…
Che cosa ha studiato lei?
Lingue e letterature straniere moderne. Però, insomma, allora stavo crescendo e mi sono messa in una posizione di osservazione e di ascolto. Quello che posso dire è che, per me e per Tucci, non c’è mai stato un confine tra il nostro privato la passione per l’arte. Per noi non è mai stato un mestiere. C’è stato sempre un condividere tutto con gli artisti. Ogni progetto veniva discusso… era ed è ancora oggi una situazione di vita reale, senza limiti. Chiaramente mi è costato impegno, perché era come imparare un linguaggio di cui non sapevo assolutamente nulla. Quindi ho imparato anche a capire le sfumature e il significato delle parole… tante cose… come il significato delle parole alla fine si concretizzasse… Quello che prima sentivi teoricamente ad un certo punto potevi vederlo concretizzato in un’opera, e solo in quel momento capivi il senso dei discorsi che avevi ascoltato. Al principio ho avuto il privilegio di essere protetta. Solo anni dopo abbiamo condiviso anche il lavoro insieme, ma tutta la mia formazione iniziale era come quella di un’apprendista, che aiuta quando serve ma non ha la responsabilità di quello che sta succedendo.
A quell’età è anche più facile avere la mente aperta alle novità, però…
Beh più che altro, comunque, il grande merito di Tucci è che non è mai stato un professore, non ha mai avuto nei miei confronti una prevaricazione di tipo paternalistico. È la persona con cui ho parlato di più in vita mia. Quello che non osavo dire con gli artisti lo discutevo con lui a casa e lui è sempre stato molto aperto. Era una persona particolare, non credo comune. Tucci non aveva limiti né condizionamenti. Quando un’idea nasceva era come se fosse già realizzata… anche se non c’erano ancora gli strumenti per realizzarla.
Questa è una cosa da imparare!
Sì. Quando ci si appassionava a qualche cosa, sapevamo che questa cosa sarebbe comunque successa. Magari non subito, però sarebbe inevitabilmente successa. E questa è un’incoscienza che mi porto dietro anche oggi… costi quel che costi…
Forse non c’è un altro modo per farcela…
Ah beh se metti tutto sul tavolo ti spaventi… (ride ndr) però credo che sia una cosa che capita anche agli artisti.

Infatti mi chiedevo, quando prima lei mi parlava del fervore, del credere nelle cose, di questa ossessione… vale solo per gli artisti o anche per i galleristi?
Io posso parlare solo per me e per Tucci. Non c’è un genere “gallerista”, ci sono le persone, per cui questo discorso vale per le persone che credono intensamente in qualche cosa… Poi se queste fanno i galleristi o qualcos’altro, è una questione conseguente, però non è una cosa che si possa identificare in un genere di mestiere.
Tutti quelli che collaborano alla realizzazione di un progetto artistico in qualche modo sono animati dalla stessa ossessione?
Questo non lo so…
Nel vostro caso è andata così?
Io posso parlare per quel che riguarda noi e per quello che ho visto negli artisti con cui abbiamo lavorato, poi tutto il mondo intorno è variabile. Non lo posso dire. Ho visto persone molto appassionate, questo sì.
Questa stessa passione la trova anche nelle generazioni di artisti più giovani con cui lavora? Ovviamente rispetto a Zorio Caravaggio è giovane, anche se non è un ragazzino neanche lui…
Sì. È solo un modo diverso. Ma è un modo diverso perché c’è una crescita diversa e una situazione diversa. Poi devo dire che quello che ammiro molto in artisti come Gianni Caravaggio o Mario Airò, Christiane Löhr o Alfredo Pirri, che è una figura veramente molto intensa, è che hanno avuto la forza di andare avanti da soli. Perché comunque l’arte povera è stato un gruppo, e un gruppo dà in ogni caso una forza, soprattutto negli anni iniziali grazie al dialogo tra loro. Ma dà anche una forza di immagine, di riconoscimento a livello internazionale. Per essere figure solitarie, per quanto di qualità, in un sistema dell’arte come quello attuale, soprattutto se uno fa un’analisi di come sono cambiati i tempi, sicuramente ci vuole coraggio.
Secondo lei è possibile oggi ricostruire una situazione di gruppo, o è auspicabile? Oppure sono cose che capitano per caso?
Non è una domanda facile. Bisogna andare a cercare in un territorio diverso, nell’ambito critico. È una qualifica che arriva dall’esterno del gruppo.
Però c’è anche il gruppo di amici, che comunque…
Sì, c’è il gruppo di amici, ma sinceramente non so, non credo sia una cosa che si possa costruire a tavolino. Se ci sono degli artisti che hanno delle affinità elettive, come è successo negli anni ‘60, forse si metteranno insieme. Però non ho una risposta per questo.
Forse allora c’erano delle condizioni che permettevano di più in generale?
Beh, c’era la rivoluzione! (ride ndr) Noi parliamo di arte, ma pensiamo a che cosa c’era in quegli anni a livello di musica, di poesia, di teatro… Quando parlavo di fervore parlavo anche di fermento di un’epoca. Da quel punto di vista al momento vedo drammi…
Beh, ma quello è perché davvero siamo spinti sempre più a isolarci davanti ai nostri schermi… e a relazionarci meno con gli altri in maniera costruttiva. Poi questa mancanza di dialogo, di confronto, forse non fa neanche nascere i movimenti, le cose…
Non lo so, non ho una risposta. Però spero di avere ancora la capacità di vedere, nel momento in cui capitasse qualcosa…
Ma come si sviluppa secondo lei questa capacità di vedere?
Non so… capita… Credo che la grande sfida che ho con me stessa, oggi, è di non avere una presunzione rispetto alla storia che ho avuto la fortuna di condividere, ma di avere un’umiltà nel vedere che cosa mi sta capitando intorno. Spero per me stessa, più che per gli altri, di non essere un essere educato. Etico sì, ma non educato nel senso sociale.
Nel senso di mantenere l’apertura mentale?
Sì, esatto. È che forse oggi ci dimentichiamo la fatica che hanno fatto quelli di quella generazione per confermare il loro lavoro e le loro idee, da tutti i punti di vista. Devo dire che quello che le generazioni più recenti possono soffrire, oggi, è riuscire ad avere idee altrettanto forti da emergere. Perché quelle di allora sono state talmente intense e pregnanti, che bisogna rispondere con qualcosa di diverso e altrettanto intenso…
Ma secondo lei se oggi ci fosse uno Zorio giovane, dico un nome a caso, com’è adesso il sistema, avrebbe le stesse possibilità di arrivare oppure no?
Dipende da che pazienza ha! Perché questi artisti hanno avuto tanta pazienza, non è stata una cosa da un giorno all’altro… si parla di artisti con cinquant’anni di carriera alle spalle, che ancora oggi lottano per il loro lavoro…
Tanti oggi si perdono facilmente perché vogliono arrivare subito… invece bisogna avere questo carattere, voler sostenere la propria ossessione senza diventare educati, nel senso che diceva lei… giusto?
Sì. Poi esistono anche degli elementi casuali che non sono prevedibili… una casualità positiva ci vuole! (ride ndr)

Torno un po’ a una domanda che le ho già fatto, ma in modo più esplicito. Lei oggi come vede l’ambiente torinese? Quali sono i lati positivi e negativi secondo lei?
Mah… (ci pensa ndr) Forse io Torino la vedo come un’onda nel tempo. E in quanto onda, non vedo un punto di interruzione. Per sua definizione l’onda risulta essere una situazione di alti e bassi, e quindi ci sono vibrazioni diverse, altezze diverse… Negli anni ‘60 e ‘70 c’era sicuramente un’onda molto alta di pensiero, ma a cui non corrispondeva un’onda alta a livello istituzionale, perché comunque era gestito tutto a livello privato, intendo sia le gallerie sia gli artisti. Sono poi stati gli anni ’80, con l’apertura dei musei con una specificità sull’arte contemporanea, a modificare qualcosa in questo senso. Il Castello di Rivoli ha determinato davvero un cambiamento, e nella misura in cui è nata un’istituzione di quella qualità, anche le fondazioni che si sono dedicate all’arte contemporanea, senza stare a citarle, sono state onde continue. Però, nel momento in cui ci sono delle istituzioni di rilevanza, entrano anche degli interessi economici di un certo tipo, e quindi bisogna sottostare a dei condizionamenti sociali, che sono legati a tutto quello che capita nel mondo, anche a livello economico e così via. Questo determina quello che abbiamo definito un vuoto o un pieno di attività all’interno della città. Quindi la risposta si esaurisce in sé stessa… Non è più una domanda strettamente legata all’arte, ma diventa una domanda legata a un sistema, con tutte le sue variabili. Comunque io di città con una concentrazione di artisti così interessanti non ne vedo poi tantissime, e quindi continuo a difendere Torino. E per quel che riguarda il sistema delle gallerie, sinceramente non conosco tutto quello che capita in altre città così a fondo, ma mi sento in ogni caso nella posizione di sostenere chiunque faccia qualcosa per promuovere l’arte in questa città. Ma chiunque difenda l’arte io lo sostengo, anche se fa una cosa che non mi tocca in modo particolare…
In quegli anni d’oro che dicevamo prima, però, mi sembra di capire che ci fosse un impegno personale, privato, di gente che ha dato tutto in un modo anche molto concreto…
Sì, si rischiava il tutto per tutto, su questo non c’è dubbio.
Quindi non si aspettavano i fondi o l’impegno di qualcun altro. Sono partiti loro… Siete partiti voi…
Su questo non c’è dubbio. Rispetto alla mia storia, mia e di Tucci, io ho una mia individualità che ritengo anche molto forte e sono una figura molto diversa da Tucci, però c’è stata una formazione importante comune, e così come lui mi ha dato molto, credo di avergli dato molto anch’io. Se oggi continuo per una strada che non si contraddice questo è il risultato della nostra vita insieme. Con lui discutevamo tutto e poi quando decidevamo mettevamo in atto quello che ci interessava. E allora eravamo una squadra.
Quest’anno la galleria fa cinquant’anni…
Sì. Nel 2025 sono cinquant’anni di attività della galleria. Tutte le mostre che ho pensato da due anni a questa parte, comprese quelle in corso attualmente (Paolini e Vue d’ensemble a Torre Pellice e Gianni Caravaggio a Torino ndr) sono nell’ottica di condividere un percorso che dia un’immagine di questi cinquant’anni di attività. Per la ricorrenza, che sarà ad ottobre, mi sono resa conto che non ero in grado di riassumere tutto il nostro percorso in un’unica mostra, sarebbe diventato un insieme non facile da gestire. Perciò tutte le mostre fatte negli ultimi due anni sono un racconto che porta poi all’anniversario che avremo ad ottobre.
Per concludere di solito propongo una citazione. Nel suo caso, però, le propongo un concetto di Benjamin, quello di Eingedenken, in sostanza un guardare al passato per andare avanti nel futuro. Raccogliere ciò che nel passato poteva svilupparsi ma è rimasto indietro e non ha trovato compimento, che va ridestato per aprirsi verso il futuro. Data l’imponenza della storia di questa galleria, parlare di storia mi sembrava interessante… lei che cosa ne pensa?
Io metto in discussione il concetto di tempo e metto in discussione il fatto che passato presente e futuro abbiano un senso. Perché al di là, chiaramente, delle differenze e delle cose che la gallerie ha fatto nel tempo, c’è comunque una linea comune consequenziale che lega tutto questo come in un pensiero unico. E quando un pensiero nasce, diventa un pensiero universale, che non ha né passato, né presente, né futuro. E questo mi manda avanti ancora oggi, perché l’energia che alimenta un pensiero esiste nella misura in cui tu continui a credere in quell’idea.














