
“Sex and solitude” si chiama la mostra di Tracey Emin a Palazzo Strozzi a Firenze.
Un nome, un programma.
Un neon sulla facciata è l’insegna che ci invita a entrare.
Se non sapessimo che si tratta della mostra di una famosa artista in un’istituzione del centro di Firenze, cosa ci aspetteremmo?
Una volta a Londra sono entrata in un peep-show. Mini salette, cubicoli anzi, in cui, infilando una sterlina in una fessura, s’alzava una tenda nera dietro un vetro e si vedevano le gambe nude di una ragazza, che si infilava svogliatamente le dita nelle mutande, ma ora che avete letto tutta questa frase, la tendina era già scesa e ci voleva un’altra sterlina e poi un’altra ed eventualmente ancora per vedere come andava a finire. Mi sono fermata alla prima. Sex and solitude, appunto, al di qua, al di là della vetrina. Tutte annoiate, le ragazze, la cassiera, il brivido era riservato all’avventore.
Sex and solitude, sesso e solitudine.
Gran tristezza forse o quella sigaretta, che una volta si fumava con voluttà, dopo essere state a letto con qualcuno.
Nel cortile incontriamo le gambe inginocchiate e spalancate – chiappe all’aria insomma – di una gigantessa prostrata, non si sa se di goduria o di disperazione, spesso si geme uguale in questi casi. Solo enormi gambe di bronzo, il resto è frutto della mia immaginazione.
La prima stanza è rosa, ed è una dichiarazione di intenti. Un grande neon dice – traduco letteralmente: Mi metti la mano sulla bocca, ma il rumore ancora continua, ogni parte del mio corpo sta gridando. Spaccata in un milione di pezzi, ogni parte ti apparterrà per sempre.
La gioia acuta dell’orgasmo, mentre accanto, sulla destra una grande tela bianca accoglie le vestigia d’un corpo femminile supino, i contorni blu e rosa, le tette stagliate contro il cielo, blue che significa anche triste in inglese e un titolo: Poesia per CF, non c’è verso.
Sorrido, no, non c’è verso, c’è un CF dentro ognuno di noi. Questa è una mostra catartica.
Le abbiamo conosciute tutte, tutti, le storie d’amore che, nonostante tutto, non vanno in porto.
Se avessi fatto così, se non avesse fatto cosà, se lui, se lei, se noi. Gli arrovellamenti, le sofferenze e poi, i sì, i no, gli incontri, gli scontri, gli abbracci, ancora tu, se le cose stessero in un altro modo. Insomma, la vita sofferta dell’amore e degli amanti.

È un’unica stanza, sono mille, è un amante, sono trenta. L’aborto, la storia, il video, la guida che racconta eterea: Dopo che ha abortito l’artista non riusciva più a dipingere. Perché? chiede il pubblico. Retorica, ironica, perfida, questa domanda è vera. La guida parla della residenza in Svezia credo, dove l’artista ha concepito questo lavoro, del fatto che sia un’installazione: un’intera stanza da presentare così e non altrimenti, delle antropometrie di Yves Klein che lei ha riprodotto per ricominciare a dipingere. Ma non risponde alla domanda.
I titoli sono espliciti, nessuno sconto. Take me to heaven, I do not expect, I keep loving you, Always you, It was all too much, You were still there, The kiss, Iwas so hurt I was crying, No distance, Hold me, Hurt heart, More dreaming, There was blood, etc.
Il corpo scolpito è mozzo, solo, abbandonato, è, appunto, solo corpo, non persone, ma corpi in posizione. Al massimo sono in relazioni a parole come: Umiliata; Una nuvola di sangue, una nebbia invisibile; Non hai idea di come mi fai sentire al sicuro; Non c’è nient’altro che te; Sussurro al mio passato, ho altra scelta?
I corpi in relazione sono quelli dipinti, quasi graffiati, quasi campiture di colore, laghi di sangue, coppie eterosessuali per lo più, in posizioni che conosciamo bene, nude e stese, come quando si fa l’amore appunto. Prima, durante, dopo.

In video vediamo due gambe femminili tracciate in blu su fondo bianco che si spalancano e vibrano mentre la mano della proprietaria delle gambe ci sguazza in mezzo. I tacchi tremano. Accanto un altro neon spezzacuore: Quelli che soffrono, AMANO.
La guida parla di tratti blu veloci, di gambe, di disegno e di video, dei diversi media che l’artista utilizza, parla di tutto direi, tranne di quello che guardiamo: una donna che si masturba.
I ricami sono opere potenti, corpi femminili appoggiati sul e penetrati dal proprio amante, descritti con pochi tratti di seta blu. La forza di queste immagini e la loro delicatezza sta nel farci evocare proprio quel momento, in prima persona. Perché l’amore si fa.
E Tracy Emin ce lo mostra senza sconti, attraverso pittura, scultura, ricamo, disegno, video, installazione. I titoli sono espliciti, nulla è nascosto.

Eppure il pubblico, come narcotizzato, segue una guida che parla un linguaggio piatto ed epurato, al massimo cita sentimenti dell’artista, quasi fosse un animale esotico, una marziana, di cui venire a conoscere usi e costumi. Parla di mondo sensuale come fosse un pianeta sconosciuto, al di fuori della nostra esperienza, sconnesso dal corpo che tutte abitiamo, dalle emozioni che tutti proviamo, dal sesso che tutte e tutti più o meno facciamo. Traduce per il pubblico le attività di un’aliena. E le persone silenziose, attente, concentrate la seguono annuendo, manco fossero in chiesa o a lezione di fisica quantistica.
Le sopracciglia corrugate davanti a un quadro, una scritta da decifrare che a lettere bianche su sfondo nero dice: Voglio che mi scopi talmente tanto che non riesco più a dipingere, non è sufficientemente chiaro?
Forse è il gruppo che crea l’imbarazzo, forse è il sesso che crea l’imbarazzo al gruppo, forse la guida è in imbarazzo perché deve parlare di sesso a un gruppo di sconosciuti. Forse non si riesce a parlare di sesso nemmeno al museo, nemmeno dentro a una mostra dedicata. È difficile condividere questi sentimenti, ceri sentimenti. Le ninfee di Monet sarebbero certamente più semplici.
Andatela a veder questa mostra se siete nei dintorni e fateci caso. Voi, come ne parlereste?