
Obnubi, spettatore dilettante a spasso tra le immagini, stavolta ci accompagna a Barcellona, in un “mirador” dove c’è una “esperienza” che si trasforma nell’ennesimo, costoso, gadget
In ogni città c’è il Belvedere, un punto elevato da cui osservare, come se si stesse volando, i tetti delle case, le cupole delle chiese e i campanili, il luogo dove eravamo ieri, la distesa urbana che si fonde con il paesaggio, con il cielo, con l’orizzonte. Nelle città antiche è spesso una terrazza in cima a un colle o magari tra i merli di una torre, in quelle moderne è sempre la sommità di un grattacielo. Nel nostro ultimo viaggio abbiamo fatto la nostra brava, turistica esperienza di un Belvedere, anzi, di un Mirador, visto che eravamo a Barcellona. Il Mirador è sul cocuzzolo di un grattacielo abbastanza alto per permettere uno sguardo a volo d’uccello; il grattacielo tra l’altro, è molto contemporaneo e con una forma così caratteristica (noi lo chiamavamo il suppostone, per dire) da spiccare nel paesaggio urbano come un “landmark” e finire sulle cartoline.
Il Mirador del suppostone è proprio in cima ai trenta piani dell’edificio, è sovrastato da una grande cupola di acciaio e cristallo, le finestre si aprono a trecentosessantagradi e mantengono la promessa di offrire una vista totale sulla città e i dintorni fino a dove lo sguardo si può spingere. Oltre al panorama, il Mirador offre la possibilità di un’esperienza ulteriore e un po’ diversa e cioè uno sguardo sul futuro – o su un possibile futuro. Sì, perché sopra le teste dei turisti, ad occupare tutto lo spazio della grande cupola, c’è sospesa nel vuoto un’imponente e suggestiva installazione di Tomás Saraceno, artista celebre per le sue opere visionarie e relazionali. L’opera in questione è una delle sue “Cloud Cities”, una sorta di nuvola architettonica fatta di cavi di acciaio e poco altro, su cui lo spettatore può salire e, un po’ per gioco e un po’ seriamente, immaginare un futuro diverso, in cui le città saranno addirittura sospese nel cielo, con tutto quel che comporta una simile immaginazione. Si stratta di un’esperienza con cui l’artista ci invita a essere capaci di fare qualcosa di cui crediamo aver perso la capacità e cioè immaginare un’Utopia, un luogo o un tempo in cui saremo migliori di come siamo, più leggeri, più aperti, più sereni, più liberi e magari in pace con il mondo e con noi stessi.

Un’Utopia, appunto. E, infatti, alla base della scala di accesso alla nuvola su cui Saraceno ci invita ad arrampicarci per elevare di qualche metro il nostro pensiero, c’è una didascalia in cui l’artista rende esplicito il suo intento: «un regno sospeso in cui incontrarsi e conversare in modo diverso… un’opera immersiva, un invito ad abitare il tempo condiviso… e a considerare costellazioni alternative della sfera pubblica urbana, architetture speculative e crisi ambientale, all’interno di una rete intricata di vita… la scultura interattiva ci invita a guardare dentro e fuori, a ripensare il concetto di osservatorio del XXI secolo e a immaginare la molteplicità di mondi manifestati nelle forme mutevoli delle nuvole in transito».

Saraceno vuole farci divertire come su una giostra – sospesi nel cielo – ma anche farci riflettere, immaginare, sperare. Tutto bello. E invece no. Perché proprio prima della scala su cui salire c’è la biglietteria e così, dai cieli della poesia, si precipita al marciapiede del mercato: amico, se vuoi la tua Utopia, te la devi pagare. È un sovrapprezzo del biglietto (non economico) che hai già pagato per il Mirador, e cosa credevi? la “Experience Saraceno” mica è gratis. Qui anche la poesia macina scontrini. Qui, dove siamo noi, l’Utopia si compra come uno degli innumerevoli, inutili gadget che ingombrano l’immancabile shop attraverso cui si deve passare per guadagnare l’uscita del Mirardor. Così, tra il portachiavi, il magnete, la matita, la maglietta trovi anche il gadget-Utopia. E mica è gratis, cari sognatori.














