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La community, il valore, la cultura. Per chi?

Penzo+Fiore, Diary Study, ongoing project 2009-2025
Penzo+Fiore, Diary Study, ongoing project 2009-2025
Nel sistema dell’arte contemporanea ci si abitua in fretta al giornalismo da copia-incolla. Annunci e comunicati stampa, nati per diffondere strategicamente un progetto, diventano articoli che di rado si prendono il rischio di interrogare a fondo ciò che raccontano. È successo anche questa volta. Lanciata tra fine giugno e inizio luglio 2025, la piattaforma Community Valore Cultura, promossa da The European House – Ambrosetti insieme a sei fondazioni private italiane, ha ricevuto una copertura sorprendentemente compatta sulle principali riviste di settore, tutte allineate nel presentare la nuova community come un salto di qualità nella misurazione dell’impatto culturale. Nessuno che si chieda: valore per chi?

C’è qualcosa di inquietante e rivelatore nell’uniformità con cui la stampa specializzata ha accolto il lancio della piattaforma. Testate che, almeno sulla carta, rivendicano approcci e identità editoriali del tutto diverse, in questo caso si muovono all’unisono, restituendo un’informazione quasi intercambiabile.
Negli articoli presi in considerazione, tutti pubblicati tra il 26 giugno e il 1° luglio 2025, lo stile è quello di un giornalismo di trascrizione, più che di analisi. Le frasi-chiave del comunicato Ambrosetti ritornano pressoché identiche: “misurare l’impatto generato dalle attività culturali”, “indice sintetico per monitorare i risultati”, “piattaforma che mette in rete le fondazioni culturali”.
I dati forniti dal promotore vengono rilanciati senza alcuna contestualizzazione, nessuno che si chieda come questi dati siano stati raccolti, con quali criteri, su quali basi metodologiche. Nessuno che interroghi chi siano gli esclusi da questa “community”.
A prevalere è un tono compiaciuto, che confonde informazione e promozione. L’iniziativa viene presentata come “una grande novità”, “una nuova piattaforma”, “un progetto che dimostra il valore della cultura”. Nessun dubbio, nessuna frizione, nessuna voce esterna.
Si ha l’impressione che il linguaggio della cultura venga ormai dettato dagli stessi attori che la finanziano, e che i media di settore si limitino a seguirlo, senza esercitare quel ruolo critico che pure spetterebbe loro. La notizia viene rilanciata, confezionata, restituita digerita.
Ma un ecosistema culturale sano (e lo stesso giornalismo che se ne fa interprete) dovrebbe essere in grado di distinguere tra valorizzazione e narrazione strategica, tra comunicazione e critica, tra cultura come bene comune e cultura come prodotto misurabile, pena trasformare il giornalismo in una delle tante voci della dashbord.
Nel racconto istituzionale la cultura prende forma dentro un modello mutuato dall’impresa, con il lessico della finanza sociale e gli strumenti dell’economia dei dati. Le parole chiave sono prevedibili: valorizzazione, sostenibilità, impatto, innovazione, crescita.
Ma dietro questa lucidissima macchina retorica si nascondono alcune ambiguità che meritano attenzione.

Penzo+Fiore, Diary Study, ongoing project 2009-2025

Il primo nodo riguarda la retorica della misurazione oggettiva. Si raccolgono dati su un campione di visitatori dato, si aggregano le risposte in indicatori come soddisfazione, fidelizzazione, propensione alla raccomandazione, si produce un valore medio che restituisce un’immagine rassicurante: la cultura funziona, la cultura piace, la cultura è utile. Eppure, nessuna informazione pubblica sui metodi di rilevazione, sulle domande poste, sulle modalità di analisi. I dati diventano cifra assoluta, ma restano chiusi nel recinto dei promotori.
Si tratta, in fondo, di una valutazione autoreferenziale, condotta da chi ha già investito nei progetti e ha tutto l’interesse a dimostrarne la bontà. Il meccanismo è simile a quello dell’economia circolare dell’auto-validazione: ci si premia per ciò che si è già deciso di fare, trasformando la misurazione in una forma di legittimazione retroattiva. La piattaforma viene così a configurarsi non tanto come uno strumento pubblico di conoscenza, quanto come una tecnologia di potere interna, utile a rafforzare il posizionamento delle fondazioni e la loro capacità di orientare le narrazioni culturali.

La parola “community” evoca inclusione, partecipazione, pluralità di voci, ma l’elenco dei soggetti coinvolti dice altro: tutti attori privati, di medio-grande peso, con sede nelle principali aree urbane del Nord Italia. Nessuna istituzione pubblica, nessuna associazione territoriale, nessuna realtà indipendente o di base.
In questo quadro, la cultura rischia di diventare una leva di posizionamento reputazionale, funzionale più al rafforzamento del brand delle fondazioni che non alla costruzione di una visione culturale realmente condivisa. Il rischio è quello di una privatizzazione dei parametri valutativi, che sottrae alla sfera pubblica la possibilità di determinare che cosa si debba considerare “valore culturale”.

L’apice di questo processo è rappresentato dall’idea di un “indice sintetico” capace di racchiudere l’esperienza culturale in un unico valore numerico. Ma cosa accade quando si riduce a un numero l’esperienza di una mostra partecipata, una performance site-specific, un laboratorio condotto con una comunità reale?
Si accetta, di fatto, una radicale semplificazione della complessità culturale, che rischia di appiattire la differenza tra progetti divergenti per intenti, pubblici e contesti. L’indice diventa così una tecnologia di uniformazione, utile alla comparazione interna ma incapace di cogliere l’irriducibilità dei processi artistici e culturali. Ancora una volta, l’estetica dell’efficienza prevale sull’epistemologia della complessità.

Penzo+Fiore, Diary Study, ongoing project 2009-2025

Infine, il lessico adottato – laboratorio, esperienza, emozione, innovazione – contribuisce a confezionare un’immagine della cultura sempre addomesticata entro cornici rassicuranti. Ma la cultura che produce solo consenso è una cultura mutilata: non interroga, non spiazza, non confligge. Se le pratiche culturali vengono valutate solo per il loro ritorno in termini di engagement, fidelizzazione o soddisfazione, allora tutte le forme scomode, critiche, non conformi vengono disincentivate.
Il risultato è una cultura che non inquieta, ma “piace”; che non resiste, ma “convince”; che non apre spazi politici, ma chiude cicli economici.

In conclusione, l’operazione di “Community Valore Cultura” può senz’altro essere letta come un passo avanti nel coordinamento tra soggetti privati che operano nel campo culturale, ma se si vuole davvero parlare di valore, e non solo di “valutazione”, occorre rimettere in discussione la governance della cultura, i rapporti di forza tra pubblico e privato, e soprattutto chi ha il diritto di definire gli indicatori con cui valutare un’esperienza artistica.
Un partenariato più fecondo richiederebbe: il coinvolgimento effettivo della società civile, il riconoscimento delle comunità di pratica (curatori, artisti, giornalisti di settore, studiosi) e dei soggetti indipendenti; una trasparenza radicale su dati e metodi; spazi aperti di confronto tra soggetti con visioni anche divergenti.
Solo così si potrà davvero costruire un valore plurale della cultura, che non sia misura dell’impatto, ma impulso a ripensare criticamente ciò che l’arte può ancora fare nella società.

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