
Scompare a 94 anni uno dei più grandi fotografi italiani, protagonista di oltre 200 mostre personali in giro per il mondo e premiato, nel 1963, con il World Press Photo
Gianni Berengo Gardin non amava essere chiamato artista. Preferiva definirsi un testimone, un narratore silenzioso della realtà. Con la sua Leica e un rigoroso bianco e nero, ha raccontato per decenni l’Italia e il suo cambiamento, dai manicomi alle fabbriche, dalle strade di Venezia alle architetture industriali di Olivetti. Si è spento a 94 anni, lasciando oltre due milioni di scatti e un’eredità che ha segnato la storia della fotografia.
Nato a Santa Margherita Ligure nel 1930 ma cresciuto a Venezia, Berengo Gardin ha sempre avuto un rapporto viscerale con l’immagine. La sua carriera è stata un lungo viaggio attraverso il Paese, mosso da un’etica ferrea: la fotografia doveva essere documento, non arte. «Non ci tengo a passare per artista», ripeteva. «L’impegno del fotografo è civile, non estetico».

Negli anni Sessanta, insieme a Carla Cerati, realizzò Morire di classe, un reportage sugli ospedali psichiatrici che scosse l’opinione pubblica e contribuì alla riforma di Franco Basaglia. Quelle immagini, crude e dirette, mostravano ciò che molti preferivano ignorare. «Ricordo che a Firenze entrammo di nascosto, fingendoci parenti dei ricoverati», raccontava. «Quando uscimmo, eravamo così sconvolti che prendemmo il primo treno, sbagliando destinazione: invece di Milano, finimmo a Roma».

Fedele alla pellicola e al grandangolo, Berengo Gardin ha sempre rifiutato il digitale e il ritocco. «Il photoshop andrebbe abolito per legge nel reportage», diceva. «Una foto deve mostrare ciò che il fotografo ha visto, senza aggiustamenti». Per questo, sulle sue stampe faceva apporre un timbro: Vera fotografia, non modificata.
La sua passione per il bianco e nero era radicata nella storia della fotografia. «I miei maestri – Dorothea Lange, Eugene Smith, Cartier-Bresson – lavoravano così», spiegava. Con Cartier-Bresson, in particolare, ebbe un legame speciale. Durante i Rencontres d’Arles del 1995, il grande fotografo francese gli scrisse una dedica su un libro: «A Berengo, con amicizia e ammirazione». «Fu come ricevere una medaglia», confessò.
Trasferitosi a Milano nel 1965, collaborò con riviste come Il Mondo e istituzioni come il Touring Club Italiano, diventando un punto di riferimento per il fotogiornalismo. Le sue opere sono oggi conservate al MoMA di New York, alla Bibliothèque Nationale di Parigi e in altri templi della fotografia mondiale.
Gianni Berengo Gardin lascia una lezione semplice e profonda: la fotografia deve essere onesta. Le sue immagini, senza filtri e senza colori, restano una testimonianza unica di un’Italia che non c’è più, ma che grazie a lui non sarà mai dimenticata.













