
Villa cura assieme a Gabriella Belli l’attesa mostra Vedova Tintoretto. In dialogo, nella sede di Palazzo Madama a Torino
Il prossimo 18 settembre si apre a Torino, nella sede di Palazzo Madama, la mostra Vedova Tintoretto. In dialogo, curata da Gabriella Belli e Giovanni Carlo Federico Villa. Considerevole l’apparato iconografico con cinquanta lavori selezionati, grazie alla collaborazione della Fondazione Emilio e Annabianca Vedova, che propongono molteplici confronti tra le opere dei due maestri. Per aiutare il potenziale visitatore ad entrare nello spirito della rassegna, condividendone magari gli scopi del progetto espositivo, abbiamo posto alcune domande al professor Villa.
Professor Villa, prima di entrare nel merito della mostra, forse è opportuno dissipare un dubbio: non si corre il rischio proponendo confronti tra grandi artisti di forzare l’iconografia testuale alla ricerca delle possibili assonanze?
Certamente è un dubbio legittimo. In questo caso del tutto infondato in quanto è lo stesso Vedova, in decine di scritti e lezioni, a identificare in Tintoretto il proprio Maestro. E le opere di Vedova esposte in mostra ne evidenziano chiaramente l’approccio all’opera, dalle testuali desunzioni a pastello e carboncino o inchiostro su carta o colori a olio su carta della metà degli anni Trenta del Novecento – da Vedova battezzati ‘studi da Tintoretto’ – alle interpretazioni pittoriche degli anni Ottanta del Novecento.
Vuole chiarire la riflessione di Emilio Vedova che nel 1991 scrive: Tintoretto è stato una mia identificazione…Quella / regia a ritmi / sincopati e / cruenti, magmatici di energie / di fondi interni di passioni / di emotività commossa?
È una riflessione connessa ai codici visivi primari, pressoché identici in entrambi: forti tagli diagonali, un rovello di linee curve, violenti contrasti chiaroscurali, una frammentazione di punti luminosi che attirano lo sguardo in molteplici direzioni. Sono tutti elementi che comunicano dinamicità, instabilità, forte carica energetica e che nascono da un’urgenza comunicativa che vuole essere diretta, coinvolgente intensa e drammatica. Da Tintoretto Vedova svolge una puntuale riflessione sulla percezione visiva e il suo generarsi, in una visione che affonda le sue primarie vie comunicative a partire dal corpo. Quando noi guardiamo, proiettiamo sulla superficie un “piccolo corpo” che si orienta e si muove sulla superficie bidimensionale seguendo, di base, le stesse modalità di comportamento di un corpo nello spazio tridimensionale, nel mondo. Ed ecco che la linea obliqua comunica un senso di movimento (anche se noi sappiamo che è un segno grafico e non si muove affatto) perché viene trasformata dalla nostra esperienza fisica in un oggetto-corpo che, se posto in posizione obliqua nello spazio, sta irrimediabilmente andando, cadendo, salendo o scendendo per le leggi della gravità. Sta cioè cambiando il suo stato. Si sta modificando. Muovendo. Allo stesso modo una composizione che si regge su linee forza sostanzialmente orizzontali, comunicherà una sensazione di più lenta, sicura, solida stabilità. Da qui nascono le corse allucinate delle diagonali prospettiche di Tintoretto che invece di organizzare e ordinare lo spazio creano dei veri e propri vortici percettivi in un continuo disallinearsi di corpi che, seppure in piedi, quasi mai troveremo dritti, e anche da seduti – posizione di per sé eminentemente stabile e ferma – s’inclinano su di un lato o sull’altro.

In che modo Tintoretto è entrato in contatto con Vedova influenzandone il fare creativo?
Tintoretto è Venezia. In qualsiasi chiesa o palazzo o Scuola, piccola o grande che sia, si trova Tintoretto o una sua eco. E per Vedova è stato fisiologico e immediato incontrare Tintoretto ovunque, averlo come costante compagno di viaggio. Anche nell’essere Tintoretto colui che ha riassunto l’arte veneziana, come l’identità profonda della sua cultura, e l’ha proiettata verso l’Europa. In un’anticipazione di quanto Vedova ha vissuto con il contesto americano del suo tempo. La lezione rivoluzionaria di Tintoretto è stata compresa a fondo da due pittori che l’Italia hanno amato e anche molto frequentato, e sono divenuti, l’uno e l’altro, i maestri di una lunga stagione: Pieter Paul Rubens e Diego Velázquez. Mentre un madonnaro di Creta, Dominikos Theotokopoulos, imparava alla bottega di Fondamenta dei Mori l’arte del colorire e dell’illuminare, e divenendo El Greco si liberava dal naturalismo, assimilando le figure sinuose, gli ectoplasmi e le trasparenze dei Miracoli di San Marco. E così Tintoretto può giungere freschissimo a Édouard Manet, che ne considera l’Autoritratto il più bel quadro al mondo, può ispirare Delacroix ed essere il nume tutelare del colorismo espressionista; può mostrare come si dipinge una sedia spagliata a Van Gogh e far sì che Emilio Vedova portasse i proprio ospiti alla Madonna dell’Orto, per far vedere e capire come tutta la pittura moderna sia già nel gesto e nel pennello di Jacomo Robusti, il Tintoretto.
Nel suo intervento in catalogo sottolinea l’importanza dell’avere a Palazzo Madama l’Autoritratto del settantenne Tintoretto, e ricorda quanti sono stati segnati da questa tela. A partire da Vedova, il cui ritratto fotografico è perfettamente sovrapponibile al volto di Tintoretto, in un’identificazione piena tra il Maestro contemporaneo e quello antico. In che senso?
Credo sia sufficiente porre uno accanto all’altro l’Autoritratto di Tintoretto del Musée du Louvre e il ritratto fotografico di Vedova scattato da Mussat Sartor per rispondere a questa domanda. L’evidenza visiva è più eloquente di qualsiasi parola o riflessione.

Vedova ha studiato con molta attenzione i grandi teleri creati da Tintoretto per la Scuola Grande di San Marco, tanto da assimilarne i medesimi codici visivi. Li può specificare?
La sensazione di forte energia e intensa drammaticità che ritroviamo in entrambi gli autori è di base generata dal contrasto tra luce e buio: non un morbido, tranquillo, carezzevole e levigato passaggio da una zona all’altra ma un deciso, tagliente salto tra luce buio. Una ferita, uno schiaffo, una fatica per l’occhio-corpo che si trova difronte a uno sbarramento. In Vedova questi tagli sono evidenti, così come in Tintoretto, tanto più se ricordiamo il patinato chiaroscuro raffaellesco, modello di riferimento piuttosto condiviso all’epoca. Tintoretto sceglie appunto il taglio, la ferita, il contrasto. Ed ecco gli squarci della Preghiera nell’orto, dell’Adorazione dei pastori, della Moltiplicazione dei pani e dei pesci. Un discorso del tutto particolare va fatto per l’analisi dei punti di luce in entrambi gli autori. Perché la decisa frammentazione delle zone di luce veicola un senso di dinamica energia capace di coinvolgere velocemente lo spettatore? L’occhio umano vede grazie alla luce, il nostro sguardo è attratto dalla luce. E la luce si accende – si vede – nel buio. Di fronte a opere quali Gli ebrei nel deserto rifiutano la manna o l’Erezione del serpente di bronzo o dinnanzi alla potentissima Crocifissione, il nostro occhio si mette velocemente in movimento attirato dai tanti frammenti luminosi disseminati sulla superficie scura. Sono come veri e propri ami percettivi irresistibili. L’esito percettivo complessivo è un senso di dinamico spostamento di ciò che abbiamo davanti. Dell’opera e del suo messaggio. E tutto risulta tanto più veloce e coinvolgente tanto maggiori per numero, intensità luminosa e dislocazione spaziale saranno i frammenti luminosi presenti. Abbiamo qui considerato poi un altro paradigma percettivo: il tempo. Strettamente collegato alla sensazione di movimento e di velocità, la velocità relativa allo spazio percorso in un determinato lasso di tempo. È indubbio, nell’esperienza di noi spettatori, avvertire una velocità febbrile nelle narrazioni tanto di Tintoretto quanto di Vedova. Come se si venisse investiti da un improvviso, subitaneo spostamento d’aria. Di base questa sensazione è direttamente collegabile a quanto sopra esposto: di fronte all’Erezione del serpente di bronzo il nostro occhio è subito, e velocemente – per intensità e forza di contrasto – attirato dallo squarcio luminoso centrale, tanto più potente in quanto attorniato da profonde macchie scure. Ma, una volta giunto lì, troverà nelle immediate vicinanze un altro approdo di lucente: un corpo obliquamente disteso di rosa chiaro e una volta spostatosi li – dopo il brusco e faticoso taglio scuro – si troverà a precipizio attratto da una successione di spazi chiari e spazi scuri fino alla capitolazione, sempre più frenetica e serrata, delle grandi sagome che rompono la scura terra in primo piano. Questa alternanza non è articolata in ampie, lente e distese masse cromatiche, ma in un continuo aggrovigliarsi di ritmiche interruzioni. Vedova osserva, ascolta e i suoi studi sulle composizioni di Tintoretto risuonano dello stesso ritmo. Nei suoi studi è come se Vedova dimostrasse come e quanto, al di là e al di sotto, del soggetto (oltre l’apparenza di corpi, armature, cavalli, drappi, angeli o regine) la base della comunicazione, la sensazione, arrivi attraverso i codici visivi elementari: composizione, luce, colore. Credo la forza di una operazione come questa sia proprio la capacità di rivelare, togliere il velo, andare all’essenza e al funzionamento dei meccanismi che stanno alla base della comunicazione visiva.














