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LA BUSSOLA DI AGO. Il forsennato crescendo di Paul Thomas Anderson

Una Battaglia dopo l’Altra, di Paul Thomas Anderson Una Battaglia dopo l’Altra, di Paul Thomas Anderson
Una Battaglia dopo l’Altra, di Paul Thomas Anderson
Una Battaglia dopo l’Altra, di Paul Thomas Anderson
Leonardo DiCaprio, Sean Penn e Benicio Del Toro: cast stellare per “Una Battaglia dopo l’Altra”, il nuovo straordinario PTA

– Un nuovo “PTA” dovrebbe essere il giulebbe della cinefilia planetaria. O Sbaglio?

– Macché sbagli. Anzi. Lo si attendeva come la manna dal cielo, dopo la misteriosa non-inclusione a Venezia (ma sembra sia proprio lui, PTA, che non vuol più partecipare ai Festival). Poi, sai, c’è sempre chi storce il naso. All’anteprima romana del Cinema Barberini ero seduto accanto a un tizio al quale ho chiesto se sapesse quanto durava. “Due ore e quaranta”, mi ha detto. E io: “Che goduria! 160 minuti di Paul Thomas Anderson nuovi di zecca!”. E lui: “Beh, se sono come “Licorice Pizza” (stendo un velo su come ha pronunciato “Licorice”) anche no…”. E da lì ho interrotto qualsiasi tipo di comunicazione per evitare lo scontro a fuoco.

– “Licorice” non si discute, vero?

– Ovvio che no. Con PTA non c’è mai da discutere. Da “Sidney” in poi non ne ha sbagliato uno. “Licorice Pizza”, poi, è una delle sue vette più impalpabili e sfuggenti. Talmente sfuggente che, perlappunto, a qualcuno, come al mio vicino di posto nel Cinema Barberini, “è sfuggito”. Poi c’è chi può amare di più “Il Petroliere” o “Magnolia”, “The Master” o “Vizio di forma”, “Ubriaco d’amore” o “Il filo nascosto” (Che fatica elencarli tutti col titolo italiano)…

– Non ti dimenticare “Boogie Nights”.

– E chi se la scorda, quella perla assoluta? …Una sventagliata di capolavori, a volte “grandi”, a volte “piccoli”, come un’opera di Wagner insieme a una composizione cameristica per pochi strumenti, ma altrettanto sublime, di Franz Schubert: e “Licorice Pizza”, liquidato dal mio vicino di posto come film “mancato”, è invece operina capitale per la comprensione di un’idea di cinema che trova nella “cìnesi” della macchina da presa il filo nascosto (per restare in tema) che cuce e ricama sul dato reale la forma di uno sguardo affamato di spazi e dettagli, tutti indistintamente coinvolti nel restituire la fisicità molecolare del miracolo della “rappresentazione”.

– Paroloni. Ma chiarissimi. E il miracolo si ripete in questo recentissimo “Una battaglia dopo l’altra” nei cinema da noi a partire da giovedì prossimo, un giorno prima che negli USA?

– Ad ogni uscita del nuovo film di un genio simile c’è sempre il timore, anzi il terrore di restare delusi: succedeva con Fellini, con Scorsese, con Coppola, con Altman, Wenders… E credo che lo star seduti in poltrona (nella confortevolissima prima fila del Barberini, dove puoi allungare le gambe su dei puff poggiapiedi come nelle migliori Spa svizzere o tirolesi) investiti fin dal primo minuto dalla costante qualità di un racconto cinematografico di simile caratura, addirittura in montante crescendo per tutta la forsennata corsa di un film che poco, pochissimo concede alla staticità domestica di colloqui o conversazioni inserite comunque come ingredienti essenziali nel frullatore di una delle regie più gaudiosamente spettacolari e pirotecniche del cinema di questo nuovo secolo (ancora “nuovo”, nonostante tutto, rispetto al “vecchio” che continua a pesare come ineludibile termine di paragone per un’arte in fondo ancora bambina come il Cinema), star seduti in poltrona, dicevo, e sgocciolare per quasi tre ore dal labbro bavette di ammirata, adolescenziale stupefazione, a conferma dell’immensità di un autore amato e venerato come pochi altri, credo sia tra le felicità e le consolazioni più necessarie ed essenziali per continuare a guardare al futuro con un minimo di ottimismo e speranza.

– Mi sembra di capire che non ti è dispiaciuto… ah ah ah!

– Sai, entrare in una sala cinematografica e non imbattersi in film vecchi, autocelebrativi, inerti, ideologicamente ricattatori, fotocopie identiche ai precedenti episodi delle interminabili serie cui vanno ad aggiungersi, ma ritrovare invece sullo schermo, reinventata, riorchestrata, riverniciata a lucido, la più cazzuta tradizione del cinema statunitense, da Ford a Frankenheimer, dal Lumet più impegnato e “politico” ai frenetici inseguimenti del “Bullitt” di Peter Yates, cui nella scalmanata centrifuga del frullatore di PTA si aggiungono via via il Refn di “Too Old To Die Young” e “La Battaglia di Algeri” del nostro Gillo Pontecorvo, vistosamente citata in 16:9, ti appaga e ti sazia come niente altro. Emozioni squisitamente cinematografiche, forse con la pretesa, stavolta e magari finalmente, di arrivare ad un pubblico meno di nicchia, visto anche il tema “caldo” e attualissimo da far sembrare il film quasi un instant movie.

 

Una Battaglia dopo l’Altra, di Paul Thomas Anderson
Una Battaglia dopo l’Altra, di Paul Thomas Anderson

– Alludi anche alla scelta di un cast superstellare?

– Beh, direi che non capita di frequente una tripletta maschile che possa vantare la varietà, la popolarità e soprattutto la portentosa presenza fisica di Leonardo DiCaprio, Sean Penn e Benicio Del Toro. Il primo, dismessi i ruoli da Bellissimo, e accettando finalmente una più credibile corpulenza bovina e sudata per il suo mezzo secolo di età, fornisce al film la tonalità scalcagnatamente avventurosa dell’ex giovane eroe ormai fottuto da droghe e altre diavolerie che tuttavia non esita a rimettersi in gioco con la giovanilistica foga dell’eterno ragazzone; Del Toro, che appare a metà film e per almeno un quarto d’ora ruba la scena a tutto e a tutti, sfoggia un inedito understatement da maestro zen in netto contrasto con il caos che tutt’intorno si ritrova a gestire: prodigioso; infine Sean Penn, fisico pompato di muscolatura guizzante strizzata nella t-shirt da colonnello dell’esercito (a 65 anni…), sempre al di qua dal cadere nella caricatura, ci regala l’indimenticabile ritratto di un maturo militare USA, invaghito della mitologia trumpiana di un’America “pura” e suprematista, ma costretta a gestire istintualità naturali tutt’altro che contemplate dai codici “MAGA”… Tanta, tanta carne al fuoco, come vedi, per un film che è un modernissimo Western, eppure impudentemente politico, anzi, “rivoluzionario”. Non faccio spoiler perché sta già nel trailer, ma il “manifesto” più sincero e selvaggio del film sta in quel “Viva la revolución!” urlato a un certo punto a pugno chiuso da DiCaprio, con contagiosa convinzione.

– Però so che è anche una storia di donne…

– Imprescindibili. Anzi, a loro è affidato più che il messaggio, il “testimone” della storia, alla loro pasionaria follia, a quella sovrannaturale volontà di potenza grazie alla quale riescono ad elevarsi al ruolo di guerriere combattenti per ristabilire nel mondo un’idea “sana” di libertà e di giustizia sociale. Non a caso si tratta di due nere: la splendida (in tutti i sensi) Teyana Taylor, bomba erotica ai confini con la ninfomania (ovviamente quella del suo personaggio!), eppure genuinamente in sintonia con la propria passione rivoluzionaria (“Una Battaglia Dopo l’Altra” è vagamente ispirato a un romanzo di Thomas Pynchon, “Vineland”, ma è stato interamente riscritto da PTA) di attivista anti-Stato e anti-tutto. Poi c’è la giovane Chase Infiniti, alla sua prima apparizione sul grande schermo. PTA le consegna, nelle ultime battute del film, il messaggio politico del film, che sorprende doppiamente dopo tanto spettacolo cinematico, quasi a riportare il discorso su un piano serissimo di emergenza nazionale e mondiale, e a dire “sta a voi giovani, ora, combattere le assurdità di questo Paese, di questo Pianeta impazzito: cercate di farlo con meno istinto e più testa di quanto facemmo noi all’epoca (gli anni di Nixon e di Reagan): in bocca al lupo!”

– Però! Mica bruscolini.

– Tanta, tantissima roba, ti dico. Se non è il film dell’anno, poco ci manca. Perché all’uscita, scioccato da un SOS così perentorio, ti rifrullano in testa le immagini, i lampi violetti e azzurrini, i riflessi metallici, i controluce notturni, gli sterminati abbagli assolati del deserto risucchiati in pellicola dall’abbagliante fotografia di Michael Bauman, la solenne, implacabile mobilità della macchina da presa, segugio di un’azione scenica allestita con un realismo che pare verificarsi spontaneamente sul momento, eppure generato da coreografie architettate secondo una partitura infinitamente complessa di eventi e movimenti… Poi arrivano quei dieci minuti di su e giù per le highways durante i quali pensi davvero di non aver mai visto niente di simile, al cinema. Niente di simile, credimi. E lì siamo all’apoteosi. Al delirio. Insomma: in Paradiso.

– Al tuo vicino di posto è piaciuto?

– È andato via all’inizio dei titoli di coda, perdendosi la dedica finale del film. Ben gli sta.

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