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Man Ray: le (in)forme, tra luce, provocazione ed eleganza

Larmes 1932 © Man Ray 2015 Trust, by SIAE 2025 Image: Telimage, Paris
Noire et blanche, 1926, stampa ai sali d’argento, 17,3×23,5 cm. Collezione privata © Man Ray 2015 Trust, by SIAE 2025 Image: Telimage, Paris
Dipingo ciò che non può essere fotografato e fotografo ciò che non posso dipingere. Dipingo l’invisibile, fotografo il visibile” – Man Ray

Quanti Man Ray conosciamo? Stiamo parlando dell’artista dadaista e fotografo surrealista, all’anagrafe Emanuel Radnitsky (Filadelfia 1890 – Parigi 1976), uno spirito libero, sperimentatore di nuovi linguaggi come il rayogramma e la solarizzazione, di una mente istrionica: pittore, scrittore, fotografo, regista che non copiava la realtà ma esplorava nuove prospettive. È un genio inafferrabile amante della libertà e della ricerca del piacere dell’immagine, che ha segnato l’estetica del Novecento e continua a influenzare la cultura visiva contemporanea. Lui è un generatore di idee, noi siamo sedotti da ciò che inventa, come succede osservando 300 opere – tra fotografie vintage, disegni, litografie, oggetti e documenti provenienti da importanti collezioni pubbliche e private – raccolte nell’imperdibile mostra retrospettiva “Man Ray – Forme di Luce”, promossa dal Comune di Milano-Cultura e prodotta da Palazzo Reale e Silvana Editoriale, curata da Pierre-Yves Butzbach e Robert Rocca, studiosi che hanno analizzato il “Picasso della fotografia”, come è stato definito dai critici. (Fino all’11 gennaio 2026)

L’ultima mostra milanese dedicata a Man Ray risale al 1999 alla Fondazione Antonio Mazzotta, a cura di Janus e con testi in catalogo di Giorgio Marconi, amico personale dell’artista e uno dei suoi più importanti collezionisti, e di Arturo Schwarz, suo gallerista dagli anni Cinquanta. Ci voleva questa retrospettiva dell’inventore di nuovi paradigmi visivi contro la perfezione, per riscoprirne la passione autentica per l’immagine e comprenderne i meccanismi mentali: un lavoratore instancabile che agiva per gioco, all’insegna del piacere e della libertà espressiva. “L’uomo raggio”, come lo battezzò Marcel Duchamp nel 1921, fotografa senza macchina fotografica e dipinge senza pennello con l’aerografo; per lui tutto nasce dal cervello, e come diceva: «Creare è divino e produrre è umano». Tutte le sue opere, nate dall’alchimia tra humour, paradossi, intelligenza e immaginazione, in mostra a Palazzo Reale restituiscono non solo la vita e le provocazioni – tra ironia ed eleganza – di Man Ray, ma ripercorrono le tappe fondamentali della storia e della tecnologia dell’immagine. Otto sezioni inscenano uno spaccato di un’epoca tra le due guerre, quando Parigi era la culla della modernità, animata da intellettuali e personaggi che l’hanno vissuta, amata e trasformata in laboratorio delle avanguardie, prima del suo declino con l’avvento di Jackson Pollock e dell’Espressionismo Astratto, movimento statunitense che eclissò il monopolio culturale parigino.

Larmes 1932 © Man Ray 2015 Trust, by SIAE 2025 Image: Telimage, Paris

Man Ray uno, nessuno e centomila…

L’artista statunitense, nato da genitori ebrei di origine russa, adottò lo pseudonimo Man Ray – unione di “Man” (uomo) e “Ray” (raggio di luce). Cresciuto a Brooklyn e educato a New York, frequenta il Ferrer Center, scuola libertaria e punto d’incontro di intellettuali, prima di diventare fotografo e artista dadaista, dissacratore dei linguaggi tradizionali. Alla fotografia si avvicina attraverso la rivista “Camera Work” e la galleria “291” di New York, diretta da Alfred Stieglitz e Edward J. Steichen. Questo centro di cultura cosmopolita ospitava mostre di artisti delle avanguardie europee a partire dal 1909, dove Man Ray scopre Brancusi, Picasso, il Cubismo e tanti altri autori, alcuni dei quali segneranno il suo percorso artistico, in primis Marcel Duchamp, con il quale inizia a giocare a tennis dal 1915. Dalla loro straordinaria collaborazione nasce a New York (1920) il primo museo d’arte d’avanguardia, chiamato “Societè Anonyme”, finanziato da Katherine Dreier. Il mago della luce incomincia a fotografare le sue opere a New York nel 1915, e l’anno successivo è cofondatore della Società degli Artisti Indipendenti; collabora con numerose riviste, insieme a Duchamp, il suo alter ego, per “Dada New York”. Nella metropoli cosmopolita inizia la costruzione di oggetti predadaisti, come Boardwalk (1917), Shadows (1919), Lampshade (1919), seguono molte altre opere anarchiche come la sua mente eclettica. Per Man Ray «L’originale è la nascita, la copia è la sopravvivenza dell’oggetto».

Rinascita parigina (1921-1940)

Il debutto artistico di Man Ray avviene a Parigi nel 1921; all’arrivo lo accoglie alla stazione Duchamp, e all’epoca aveva 31 anni. Nella Ville Lumière diventa fotografo di James Joyce e Gertrude Stein, inizia a lavorare per la moda, in particolare per il sarto Paul Poiret, e dal 1925 con “Vogue”. Insoddisfatto di come i fotografi professionisti trattavano i suoi bizzarri assemblaggi, li fotografa secondo il suo estro e queste immagini diventano opere. A Parigi scatta ritratti straordinari di intellettuali, personaggi e artisti con particolare sensibilità psicologica: da Coco Chanel a Elsa Schiaparelli, Picasso, Paul Eluard, Tristan Tzara, Arnold Schönberg, Igor Stravinskij, André Breton e i protagonisti del Surrealismo, l’amico Alberto Giacometti, Joan Mirò, e tra gli altri l’immancabile compagno di sperimentazioni audaci Marcel Duchamp, ‘attore’ nella fotografia Tonsure (1919) e in quella famosa in cui compare vestito da donna in Rrose Sélavy (1921). Tra gli illustri della mondanità culturale parigina, Man Ray consacra all’immortalità la Marchesa Casati, ritratta con ‘quattro occhi’ in una foto frutto di un errore (1922). In mostra scopriamo le molteplici sfaccettature di Man Ray a partire dall’ironico Autoritratto (1916), ammiccante in altri scatti sperimentali in cui riconosciamo l’ego caleidoscopico dell’immaginifico creatore di sogni attraverso autoritratti concepiti come opere d’arte. Lo vediamo rasato a metà in un’immagine del 1944, e l’anno dopo si immortala vestito da prete. A Parigi costruisce il primo oggetto dadaista apparso in Francia, Cadeau (1921): un ferro da stiro irto di chiodi esposto in una mostra alla Librerie Six, che doveva essere un regalo a uno dei suoi amici dadaisti, scelto tirando a sorte. L’oggetto sparì il giorno dopo del vernissage, poi fu ritrovato e replicato. Una delle prime fotografie scattate a Parigi è il ritratto di Marcel Proust (18 novembre 1922) sul letto di morte, forse l’unica dedicata a un defunto; fu Jean Cocteau a portare l’artista davanti al capezzale dello scrittore. Seguono altri capolavori fotografici nel periodo parigino (1921-1940), quando oltre ai ritratti si consacra alla bellezza incarnata dalle sue muse, modelle e amanti, e sperimenta il cinema.

Rayographie “Le baiser”, 1922 © Man Ray 2015 Trust, by SIAE 2025

La mostra, le donne e il piacere della bellezza

La mostra presenta l’unità del molteplice del disegnatore di luce, suddivisa in sezioni: Autoritratti, Ritratti, Muse, Rayografie, Cinema, Moda, Nudi e Multipli. Un percorso che inizia con una serie di autoritratti esilaranti, dove scopriamo il genio polimorfico del precursore del dadaismo e surrealismo, osservando per lo più stampe vintage e poche stampe moderne autorizzate dall’autore. In particolare, sono modernissime – quasi optical – le stampe rayografiche. È una rivelazione scoprire il suo interesse per il cinema, territorio di sperimentazione di pura tecnica e poetica, con la proiezione dei film Le Retour à la raison (1923), Emak Bakia (1926), L’Étoile de mer (1928), Les Mystères du Château de Dé (1929). Grazie all’allestimento di Umberto Zanetti (studio ZDA), chi non conosce Man Ray entra in un percorso espositivo suddiviso in sale concepite come ‘scatole magiche’ con pareti colorate; chi già lo conosce, lo riscopre soffermandosi sui dettagli, cogliendo l’aspetto multidisciplinare di un alchimista di illusioni. Ci seduce la mente di un artista liberatorio e libertino che ha amato molte donne, amici e la vita, in cui tutto e tutti diventano soggetti-oggetti della sua bulimia creativa, fedele al bisogno di fare arte. È un dadaista anarchico attratto da donne indipendenti dalla forte personalità, che poi l’hanno lasciato. Diventa sua moglie Juliet Browner, ballerina di ventinove anni incontrata nel 1940 a Hollywood, modella a cui dedica ritratti dal 1941 al 1955, raccolti per volontà dell’autore nel libro The Fifty Faces of Juliet. Con la donna della sua vita, nel 1951 lascia New York e torna definitivamente a Parigi, vivendo insieme in un atelier vicino al Jardin du Luxembourg. Le altre donne amate le ha consacrate all’eternità, come Alice Prin – detta Kiki de Montparnasse – che vivrà con Man Ray per circa sei anni dopo il divorzio della prima moglie Adon Lacroix. Celebre modella per Chaim Soutine e Amedeo Modigliani, diventa icona in Le Violon d’Ingres (1924), ritratta nuda di spalle con turbante e braccia nascoste, in una posizione ispirata a Ingres, con due chiavi di violino disegnate sul fondo schiena. Kiki, regina delle notti parigine, in Noire et Blanche (1926) sublima il gesto di accostare il suo volto a una maschera africana. Lee Miller, assistente, poi modella e amante, è una straordinaria fotografa che durante la Seconda guerra mondiale diventa per “Vogue” corrispondente di guerra, nota per immagini drammatiche della liberazione dei campi di concentramento; con lei sperimenta la solarizzazione, nata per errore da una stampa investita da troppa luce. Negli anni Trenta si innamora di Ady Fidèlin, ballerina e modella della Guadalupa, che grazie a Man Ray diventa la prima donna di colore ad apparire sulle riviste americane, in una nazione ancora razzista. Lydia, modella e ballerina di cancan, è fotografata in Glass Tears (1932), l’immagine manifesto della mostra, a cui Man Ray attacca due piccole perle di glicerina sulle guance, per poi ingrandire in camera oscura solo il dettaglio degli occhi con lacrime di vetro ‘dadaiste’. Nusch Eluard, Meret Oppenheim – simbolo della donna surrealista – dal volto enigmatico sono simulacri di bellezza dall’ambiguo erotismo.

Lee Miller, 1930 ca. © Man Ray 2015 Trust, by SIAE 2025

La Fotografia come linguaggio artistico: una rivoluzione percettiva

Man Ray diventa il padre della fotografia come linguaggio artistico con le “rayografie” – definizione tratta dal suo nome, dove “ray” secondo Breton sta per luce – immagini ottenute senza fotocamera, posizionando oggetti su carta fotosensibile impressionata dalla luce. Cosa vediamo se non una traccia di luce? Le sue composizioni astratte in rigoroso bianco e nero configurano oggetti traslucidi misteriosi emersi dall’oscurità, come epifanie di cose mai viste se non in sogno; pure astrazioni in bilico tra tecnica, scienza e immaginazione. La solarizzazione, il sovrasviluppo nato per errore con la complicità di Lee Miller, ci appare come una presenza spettrale, dal corpo e volto contornati da aloni luminosi, di un fascino fotonico. Dall’immersione nello sguardo trasversale di Man Ray, di una mente dinamica e inafferrabile, usciamo spaesati ma appagati, con la consapevolezza che l’arte è forse una nostalgia postuma della vita, “un sogno a occhi aperti”, surreale, di come l’abbiamo immaginata più che vissuta.

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