
A Oristano con HOPE AROUND. NEW YORK GRAFFITI l’esordio del graffitismo moderno con le opere dei suoi primi protagonisti: un frammento della grande storia dell’arte e della contemporaneità – da fenomeno ribelle ed invasivo alla sua affermazione come arte – presentato da Dromos Festival
Al Foro Boario la grande era della nascita del writing nella mostra, a cura di Fabiola Naldi, tra esplorazione, analisi e riflessione su questa manifestazione antropologica ed artistica, visibile nello spazio Oristanese fino al 25 ottobre.
Nella notte la mano corre lasciandosi dietro delle file di parole nere; fioriscono segni inconsueti – come lettere, parole, numeri e nomi magici – su grigi muri e stanche città: è l’alba di uno dei più penetranti fenomeni artistici dei giorni nostri, nato all’inizio degli anni ‘70 come indisciplinata affermazione di se. Invadono i vicoli tra i grandi isolati dello spazio urbano, s’impadroniscono delle fermate degli autobus, occupano le facciate delle zone di periferia e dei sobborghi degradati, assalgono treni abbordandone ogni vagone e deflagrano nelle metropolitane. Da lì si propagano – silenziose e urlate – verso il centro, penetrano violentemente, incontrastate, il cuore delle città, conquistano ogni superficie del contesto cittadino, arrivando in coraggiose incursioni fino ai luoghi più in vista della city, bombardata di tag. A comparire sono brevi parole e qualche cifra, “firme” di autori sconosciuti che così dichiarano spavaldamente la loro presenza nel mondo, il loro esserci. Queste scritte, che presto assumono il nome di tag, danno l’agognata visibilità a colui che le scrive, il writer e la fama guadagnata è misurabile, proporzionale alla quantità e all’ubiquità di quelle semplici scritte.

Aumenta così il rispetto portato dalle comunità underground all’ignoto scrivente e il legame con l’ambiente di appartenenza. È un fenomeno che porta emulazione, un fatto che “genera amici di penna” e fa nascere centinaia di casi simili, di imitazioni e confronti. E, intrinsecamente, causa una competizione, una concorrenza serrata, basata sul numero di firme lasciate nel tessuto urbano, ma che insieme crea uno spirito di gruppo, le crew e fa nascere un codice etico non scritto tra gli autori. È una manifestazione socio-culturale di autoaffermazione esplosiva, una incontenibile voglia comunicativa ed espressiva, priva, in origine, di aspirazioni artistiche, che non si arresta e si espande enormemente, con un’ondata incontrastabile, veicolata dal desiderio – seppur minimo e circoscritto – di successo personale e da spirito di emulazione, spontaneo, di centinaia di persone. Così le scritte – frettolose e tracciate in maniera compulsiva su quasi ogni superficie disponibile – si espandono e diventano in breve tempo un vero e proprio problema per le forze dell’ordine che organizzano diverse campagne per la loro rimozione e per fermare gli autori. Quella dei primi writer è una generazione che cerca di affermare – tra grido e silenzio – la propria esistenza in una rivincita contro l’anonimato della società di massa, che tutti equipara e tanti emargina, senza velleità artistiche. È una rivalsa sociale, strettamente personale, che proviene da quartieri poveri, segnati da povertà e disagio sociale ma insieme singolare brodo di cultura carico di fermento. Lettere e numeri sono tracciati con pennarelli indelebili o bombolette spray – spesso frettolosamente e in disordine, nel pieno dell’adrenalina del gesto illegale – tra ripetizione quasi ossessiva, semplicità, tecnicismo e illeggibilità. Da lì, con il tempo, i graffiti virano verso la ricerca calligrafica, e si evolvono dal tracciato monocromo al throw-up, con stilizzazioni e bombature dei caratteri fino ai più ricercati piece, multicolore, con marcati intenti artistici, effetti tridimensionali e personaggi e sfondi elaborati sulla composizione, rendendo i contesti metropolitani labirinti di scritte e colori.

Con la popolarità raggiunta dal movimento culturale hip-hop arriva l’accettazione di questo linguaggio visivo nel mondo dell’arte e la transizione dei writer attraverso media, moda, mercato, gallerie, mostre e musei, diventando artisti affermati.
Questa storia è raccontata nell’esposizione da oltre 40 autori, protagonisti di questo percorso, e altrettante opere su tela, provenienti dalla collezione personale di Pietro Molinas Balata, «tra le più complete raccolte esistenti dedicata alla prima generazione di writer newyorkesi, rimasta fino ad oggi completamente inedita», con nomi come Taki 183, Phase 2, Ero, Delta 2, A ONE, Rammelzee, COCO 144, Futura 2000, Fab 5 Freddy, Lee, Crash, Daze, Toxic, Kool Koor, Tats Cru, How & Nosm.
La mostra così è una ricca istantanea su un momento centrale degli sviluppi dell’arte contemporanea sul quale possiamo riflettere attraverso alcune domande poste alla curatrice Fabiola Naldi.

Come è stato possibile mettere insieme il carattere libero, ribelle e illegale, del graffiti writing con il sistema dell’arte, commerciale, “accomodante” e istituzionale?
Il mondo libero, ribelle e illegale del graffiti writing aveva già iniziato, fin dai suoi esordi, a confrontarsi con il sistema dell’arte – anche quello commerciale, istituzionale e apparentemente più accomodante – mettendo in gioco il proprio intuito e la propria forza stilistica. Nella mostra che ho curato sono presenti due opere emblematiche di Fab Five Freddy e Lee Quinones, realizzate nel 1979 e già esposte in occasione della loro prima mostra a Roma, nello stesso anno. Questo dimostra come gli stessi pionieri – già alla fine degli anni ’70, e ancora di più nel decennio successivo – avessero intuito la possibilità di instaurare un dialogo con il mondo dell’arte contemporanea. Un dialogo che non implica necessariamente l’adesione a logiche commerciali, ma che può svilupparsi anche in modo critico e consapevole, tenendo conto sia del contesto urbano da cui il writing proviene, sia delle sue potenzialità espressive in ambiti espositivi più canonici. I grandi autori che ancora oggi operano sia in strada sia all’interno di musei e gallerie sono gli stessi che hanno compreso come questo linguaggio non dovesse semplicemente essere trasposto su tela, ma potesse diventare uno strumento di indagine autonoma, con una propria coerenza formale e concettuale.
Che influenze hanno lasciato questi primi autori nel mondo del writing e tra le nuove generazioni?
Questi primi autori sono i veri padri fondatori della disciplina: coloro che hanno definito gli stili, codificato il linguaggio visivo e stabilito le regole del movimento. Hanno gettato le fondamenta di quello che oggi è riconosciuto come il più grande movimento aespressivo nello spazio pubblico, sviluppatosi non solo negli Stati Uniti, ma anche in Europa e, più in generale, in tutto il mondo. L’eredità di questi pionieri si manifesta nel linguaggio, nello stile, nell’approccio e nella credibilità che hanno saputo costruire, dando vita a un alfabeto visivo e artistico unico, che con il tempo è diventato il codice espressivo di un’intera generazione.
Che rapporti ci sono tra i movimenti underground e controculturali da cui nascono e il contesto dell’arte contemporanea?
Non esistono veri rapporti tra i movimenti underground e controculturali e l’arte contemporanea finché quest’ultima – intesa come sistema – non decide di accettarli, assorbirli, strumentalizzarli e utilizzarli. È vero che molti di questi movimenti, col tempo, si sono in parte normalizzati, scegliendo di collaborare o di costruire percorsi condivisi con il sistema dell’arte contemporanea. Tuttavia, per loro stessa natura, i movimenti underground e controculturali nascono in modo autonomo, distanti e spesso in aperta contrapposizione con quel sistema, opponendosi dichiaratamente alle sue regole e dinamiche.
Attraverso le opere dei suoi primi protagonisti HOPE AROUND. NEW YORK GRAFFITI ragiona e svela così le dinamiche dietro la nascita e l’affermazione di una delle più influenti manifestazioni antropologiche ed artistiche moderne, riuscendo a dare immagine di un fenomeno popolare e complesso come il writing.













