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Il corpo come resistenza: in conversazione con Jan Fabre al Teatro Out Off

Irende Urciuoli in Una tribù, ecco quello che sono, Teatro Out Off. Foto di Alessandro Villa
Irende Urciuoli in Una tribù, ecco quello che sono, Teatro Out Off. Foto di Alessandro Villa
Al Teatro Out Off di Milano, Jan Fabre celebra quarant’anni di collaborazione con Mino Bertoldo. Nel nuovo spettacolo “Una tribù”, esplora il corpo, la metamorfosi e la connessione tra umano e animale

Fino al 30 ottobre il Teatro Out Off di Milano celebra quarant’anni di sodalizio tra Jan Fabre e Mino Bertoldo con il “Festival Fabre – 40 anni di poesia della resistenza”. Un titolo-manifesto che riassume una visione in cui arte e vita si intrecciano ad azione e pensiero: la resistenza come gesto poetico e come necessità etica, il corpo come luogo in cui la creazione diventa atto di libertà. Sei spettacoli — due in prima mondiale — per raccontare una delle voci più radicali del teatro europeo, capace di trasformare il palcoscenico in uno spazio di metamorfosi e rito collettivo. Abbiamo raggiunto Jan Fabre a Milano per vedere la rassegna e conversare con lui. Già all’ingresso, il portone in vetro, con la maniglia realizzata da Arnaldo Pomodoro, accoglie in questo teatro dalla vocazione radicale, un segno di distinzione e poesia: un invito a entrare in un luogo dove l’arte si respira sin da subito.

Jan Fabre e Mino Bertoldo. Foto di Silvia Varrani

Jan Fabre e Mino Bertoldo: il teatro che resiste
Da quasi mezzo secolo, il Teatro Out Off si afferma come uno dei centri più coerenti della ricerca performativa italiana. Diretto da Mino Bertoldo, lo spazio di via Mac Mahon continua a difendere la sua vocazione all’indagine, alla sperimentazione, al rischio. In un sodalizio lungo quarant’anni, il dialogo duraturo con Jan Fabre iniziò nel 1985, quando l’artista presentò Il potere della follia teatrale all’interno della rassegna “Sussurri o grida”. Da allora, un legame fedele ha accompagnato il percorso di entrambi: una collaborazione che ha portato in scena lavori seminali come The crying body (2004) e Peak Mytikas (2023). In questo anniversario, il teatro si fa dunque non solo luogo fisico, ma simbolo di un’alleanza — una tribù artistica che da quarant’anni resiste alle derive dell’omologazione. «Penso che Mino sia un uomo molto autentico e un produttore molto autentico. È una persona che ama profondamente la bellezza e l’arte. E, si sente che lui ha sempre seguito la sua strada, il suo percorso. E questo è molto raro in questa società, perché le persone scelgono velocemente il successo o i soldi. Lui non l’ha mai fatto.» – ha detto Jan Fabre a proposito del sodalizio con Mino Bertoldo e del suo lavoro.

Il tributo ad Artaud al Teatro Out Off
Tra le prime mondiali del festival, Una tribù, ecco quello che sono con Irene Urciuoli è un omaggio ad Antonin Artaud e al suo Théâtre de la cruauté. Fabre riprende la “crudeltà spirituale” artaudiana portandola nel presente, intrecciandola alla sua idea di “recitazione fisiologica”: il corpo che pensa, la carne che si fa linguaggio.
«Per me Antonin Artaud è un maestro ancora oggi contemporaneo: lui non ha creato dei metodi, piuttosto una linea guida filosofica. E per questo motivo è ancora una fonte di ispirazione molto importante. Le persone nella storia, a volte sviluppano dei metodi, come, per esempio, Grotowski. Quando leggi i suoi libri, questi sono diventati antiquati, fuori moda. Quando leggi Artaud no, perché Artaud riguarda una sorta di stato mentale più filosofico. Una linea guida filosofica. Una linea guida è qualcosa di diverso da un metodo.» ha spiegato Jan Fabre.

Irende Urciuoli in Una tribù, ecco quello che sono, Teatro Out Off. Foto di Alessandro Villa

Irene Urciuoli porta in scena la crudeltà: sul palco, una donna elegantemente vestita inizia un processo di spoliazione — prima simbolico, poi reale. Si libera dei suoi abiti e delle convenzioni, fino a scoprire la propria natura animale, quella che la civiltà contemporanea della colpa e della vergona tenta di reprimere. Jan Fabre ha commentato con noi la sua performance in Una tribù, ecco quello che sono e il ruolo di tutta la compagnia teatrale nel suo lavoro.
«Irene è con la mia compagnia da otto anni. Ha ricevuto il titolo di Guerriera della Bellezza. Ed è un’attrice di grande talento. Anche se l’avevo già scritturata sei anni fa, la sto dirigendo solo adesso per la prima volta. E penso che fosse la donna giusta perché penso che il suo campo d’azione, la sua gamma come performer, sia incredibile, con molte sfumature. Lei si è formata nella mia compagnia. Ma conosce l’idea della metamorfosi, quasi l’antico modo alchemico di metamorfosare. Non recitare qualcun altro, ma diventare qualcos’altro.»
Nel gesto reiterato dello sbucciare e mangiare cipolle — “non mi stuferò, strato dopo strato, di sbucciare la mia anima” — si compie un atto di purificazione. La cipolla diventa metafora di un sé in cui convivono mente, cuore e sesso, ma anche del dolore necessario per arrivare alla verità. Ogni strato tolto è un limite che si oltrepassa, un confine che si dissolve, una maschera che cade.

Irende Urciuoli in Una tribù, ecco quello che sono, Teatro Out Off. Foto di Alessandro Villa

Spiega ancora Jan Fabre: «Quello che (Irene) fa nello spettacolo è piuttosto difficile perché deve passare, quasi come se fosse una fenice, diciamo, da una strega a uno sciamano a una diva a una lunatica, a una dea. E poi anche tutti gli animali. È molto difficile, quello che fa. E lo fa con molta bravura. Sono fortunato ad avere attori e ballerini fantastici nella mia compagnia. Perché io non sono nessuno senza di loro. Loro sono la cellula nervosa, la luce del mio lavoro teatrale. Come regista puoi mettere tutto su carta, puoi scrivere un testo brillante o una buona mise-en-scène e una buona scenografia. Ma quando non hai persone come Irene, non è nulla. Fortunatamente i miei attori e ballerini sono molto migliori di me.»

Jan Fabre: il teatro come atto di verità
Con Una tribù, ecco quello che sono, Fabre torna a indagare l’umano fino ai suoi strati più reconditi. Il suo è un teatro della metamorfosi, in cui l’essere umano si denuda fino all’osso per ritrovare la propria essenza. Come Artaud, anche Fabre crede in un teatro capace di curare attraverso la ferita: un luogo dove l’attore diventa medium, e il corpo — fragile, sacro, animalesco — è insieme altare e strumento.
Nel lavoro di Irene Urciuoli questo si traduce in una tensione costante tra bellezza e brutalità, tra eros e sopravvivenza. La scena non rappresenta, ma accade: è il teatro stesso che si sbuccia, strato dopo strato, fino a ritrovare la sua sostanza più viva.

Poesia della resistenza
Nel tempo della distrazione e dell’immagine patinata, Jan Fabre continua a proporre un teatro che richiede attenzione, tempo e coraggio. La “Poesia della resistenza” che dà il titolo del festival è anche il cuore pulsante della sua poetica: resistere alla superficialità, alla velocità, all’oblio, facendo del corpo un territorio di verità.
Nel gesto lento e rituale di Una tribù, ecco quello che sono si compie così un piccolo miracolo: ricordarci che l’arte non consola, ma risveglia, agita e turba. E che, per rinascere, a volte bisogna attraversare la crudeltà della conoscenza — sbucciando, senza tregua, la propria anima. «Siamo profondamente legati alla terra, perché siamo animali anche noi. Dentro di noi sopravvive ancora una parte rettile, una traccia di coda. Per questo lei si muove a carponi, come un bersaglio che sa parlare. È un gesto di connessione: parla con Dio. È quella linea sottile che unisce il cielo e la terra.» – Jan Fabre

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