
Al Museo Gypsotheca Antonio Canova di Possagno, il vetro torna a parlare la lingua di Carlo Scarpa
Nell’Ala Gemin del Museo Gypsotheca Antonio Canova, la luce filtra lenta sulle superfici e sembra tornare a parlare con l’architettura. È qui che il nome di Carlo Scarpa riaffiora, nel luogo che un suo allievo, Luciano Gemin, aveva immaginato nel 1992 come prosecuzione ideale di quel dialogo fatto di dettagli e silenzi.
La mostra “Carlo Scarpa e le arti alla Biennale. Opere e vetri dalla Collezione Gemin” (fino all’11 gennaio 2026) ricompone la trama di un legame durato quasi quarant’anni tra l’architetto e la Biennale di Venezia. Attraverso opere, vetri e documenti che raccontano l’incontro tra progetto, materia e luce. È una storia che scorre in filigrana, dove la memoria personale di Gemin diventa parte stessa dell’allestimento: un modo per restituire a Scarpa la sua voce più intima, quella del laboratorio e della mano.

Architetto e collezionista, Luciano Gemin fu uno degli allievi più vicini a Scarpa. Nella Venezia degli anni Cinquanta e Sessanta condivise con lui lo stesso sguardo sul progetto come mestiere paziente, fatto di studio e precisione. La sua raccolta, oggi in parte esposta a Possagno, è il frutto di quella vicinanza intellettuale e affettiva: un archivio di opere e di idee che continua a dialogare con il maestro.
Forme, ritmo, silenzi
Il percorso si apre come un incontro tra mondi diversi: Klee, Klimt, Morandi, Deluigi, Viani e altri maestri che avevano affascinato Scarpa e alimentato la sua immaginazione. Le opere, tutte provenienti dalla Collezione Gemin, restituiscono l’atmosfera di un tempo in cui architetti e artisti condividevano uno stesso linguaggio fatto di forme, ritmo e silenzi.

Guardandole oggi, si intuisce ciò che poteva colpire Scarpa: l’equilibrio dei colori, la precisione del segno, la cura per i materiali. C’è qualcosa di profondamente veneziano in questo modo di guardare – la luce che si riflette, le superfici che respirano, la linea che si fa costruzione. In questi dialoghi silenziosi si intravede la formazione di un occhio capace di cogliere le sfumature più sottili, di tradurre in spazio ciò che altri esprimevano sulla tela.
Non stupisce che Scarpa, visitando la Biennale negli anni della sua giovinezza, trovasse in queste opere una scuola invisibile: un luogo dove imparare a osservare prima ancora che a progettare. È come se in quei dipinti si riconoscesse la sua stessa attenzione al dettaglio, quella capacità di trasformare ogni superficie in un racconto di luce.

Equilibrio e sperimentazione
Dopo le opere dei grandi maestri precedentemente citati, la mostra si sposta in un’atmosfera più raccolta. Nell’Ala Gemin, il percorso entra nel cuore della ricerca di Carlo Scarpa, quella che passa attraverso il vetro. È una parte meno conosciuta del suo lavoro, e forse proprio per questo più affascinante.
Le teche custodiscono pezzi creati per Cappellin e Venini tra gli anni Venti e Quaranta: oggetti che uniscono precisione e leggerezza, equilibrio e sperimentazione. Guardandoli, si intuisce quanto la luce fosse per lui un materiale vero e proprio, da studiare e da domare. Questi vetri, così diversi eppure coerenti, raccontano un modo di progettare che nasce dall’osservazione e dalla curiosità, prima ancora che dal disegno.
L’ultima parte della mostra è un ritorno a Venezia, là dove il legame tra Carlo Scarpa e la Biennale si è costruito nel tempo. Disegni, fotografie e documenti raccontano quarant’anni di collaborazione, dal 1934 al 1972: anni in cui l’architetto trasformò i padiglioni in spazi vivi, capaci di dialogare con le opere e con il pubblico.

Pensare per dettagli
Nell’allestimento di Possagno, questa sezione assume un tono più narrativo. I materiali d’archivio e i modelli di progetto restituiscono la precisione con cui Scarpa studiava ogni passaggio di luce, ogni movimento del visitatore. È qui che riappare la sua mente da architetto, quella che progetta spazi che non si limitano a contenere, ma che accompagnano l’esperienza di chi guarda.
I modelli e gli studi per il Padiglione Italia e per l’Ambiente del 1968 mostrano il suo modo di pensare per dettagli, di costruire percorsi che uniscono forma e percezione. Le fotografie esposte documentano non solo le architetture, ma anche le persone che le attraversano: lo sguardo, l’attesa, il ritmo dei passi.
Non semplici allestimenti, ma architetture temporanee, in cui la luce e la materia diventano strumenti di narrazione – e dove la Biennale stessa si rivela come un laboratorio continuo, il luogo in cui Scarpa mise alla prova, anno dopo anno, la sua idea più pura di spazio.

Pazienza e misura
Uscendo dall’Ala Gemin si ha la sensazione di aver attraversato un percorso che restituisce Carlo Scarpa nella sua interezza. Non solo l’architetto che conosciamo per i dettagli e le geometrie, ma anche l’uomo curioso, capace di osservare e sperimentare, di mettere in dialogo arti diverse.
La Collezione Gemin diventa così una lente affettuosa attraverso cui rileggere il suo lavoro: un intreccio di influenze, di amicizie e di materia. Dalle opere dei maestri che lo ispirarono ai vetri che rivelano il suo lato più libero, fino ai progetti per la Biennale, tutto racconta un pensiero che si costruisce nel tempo, con pazienza e misura.
In questo equilibrio tra rigore e meraviglia, il Museo Canova restituisce a Scarpa una luce nuova, quella che appartiene solo alle cose guardate con attenzione. Un’occasione per riscoprire da vicino il suo sguardo e, forse, per imparare a osservare anche noi con la stessa lentezza.















