
Alla Galleria Fumagalli a Milano un dialogo inedito tra Jannis Kounellis e Andy Warhol, due maestri considerati opposti, lontano dalle interpretazioni sbrigative e dall’immaginario patinato che spesso avvolge il loro lavoro
La mostra Kounellis | Warhol. La messa in scena della tragedia umana, alla Galleria Fumagalli di Milano fino al 29 maggio 2026, non nasce per rassicurare. Nasce per spostare lo sguardo, incrinare una narrativa che per decenni ha diviso il Novecento in blocchi compatti: Europa contro America, materia contro immagine, marxismo contro capitalismo. È da questa frattura che prende forma il progetto pensato da Annamaria Maggi e realizzato con Massimo Zanello, che definisce l’idea iniziale “quasi una provocazione”, nata durante “una notte di tempesta”, quando la distanza tra Jannis Kounellis e Andy Warhol sembrava un abisso e non un possibile punto di partenza.
“Sulla carta sono agli antipodi”, racconta Zanello, “uno è un artista tipicamente americano, l’altro profondamente europeo. L’obiettivo era esplorare punti di contatto e di frattura, in un momento in cui l’arte americana si emancipava in modo netto dalla matrice europea da cui proveniva”.

Oltre le superfici: Warhol prima e dopo la Factory
Il lavoro curatoriale parte da un dato evidente: Warhol, più di chiunque, è stato ingabbiato nel proprio mito mediatico. Icone pop, glamour, colori saturi, Studio 54. Ma la ricerca condotta per la mostra ribalta questa percezione, riportando alla luce ciò che per decenni è rimasto in ombra: “Abbiamo scoperto un Warhol che non è quello della lettura superficiale. Siamo andati a Pittsburgh, ci siamo confrontati con il museo, con gli archivi. Abbiamo trovato una mostra intitolata Vanitas: un concetto tipicamente europeo e tutt’altro che pop”.
Da qui affiorano nuove connessioni: il fondo oro delle Marilyn realizzate “qualche giorno dopo la morte della Monroe”, le Jackie in lutto, le sedie elettriche del carcere di Sing Sing. “Quando guardi la sedia elettrica, non puoi dire che sia un’immagine carina, rappresenta una storia drammatica”.

Warhol come erede di un immaginario religioso e simbolico lontano dalla cultura pop? Non è un azzardo: “Era profondamente religioso, andava in chiesa due o tre volte alla settimana, accompagnava la madre, partecipava alla Messa dei poveri. Di lui si parla sempre come dell’artista del glamour, ma dietro c’è una spiritualità enorme”.
Kounellis: il rito tragico della materia
Il contrappunto è Kounellis, legato alla Galleria Fumagalli da una storia lunga e affettiva. Le opere scelte per l’esposizione ne restituiscono il nucleo più potente: ferro, cappotti compressi, carbone, capelli trafitti da lame, strumenti da lavoro trasformati in liturgie di materia.
“La tragicità in Kounellis è immediata”, afferma Zanello, “il peso, la materia, la fatica umana. È un artista classico, profondamente europeo, con radici greche e una vita italiana che l’hanno reso quello che è”. Eppure, dentro la severità del gesto, esiste una tensione spirituale che raramente si riconosce come tale: “Era un uomo pieno di vita, profondamente positivo. Cercava un dialogo con la Chiesa, riconoscendo alla spiritualità un ruolo cruciale nella storia dell’arte”.

Questo dialogo trova forma nella seconda sede espositiva, il Museo San Fedele, dove l’opera permanente di Kounellis nella cripta incontra una Polaroid di Warhol. Un avvicinamento silenzioso che rende tangibile ciò che in vita non accadde mai: “Tolto di mezzo lo scontro ideologico, forse non è così impossibile un dialogo”.
Mettere insieme gli opposti: perché adesso
Perché oggi questo confronto è possibile? Per Zanello, la risposta sta nel tempo: “La guerra fredda condizionava pesantemente l’arte. Tutto era diviso: comunismo contro capitalismo. Ora quel contesto non c’è più e certe sinergie possono essere rilette in modo più oggettivo”.
Kounellis non amava Warhol. Lo considerava “l’artista del consumismo”, figlio di un sistema che lui, marxista, rifiutava. Ma oggi che la distanza ideologica è caduta, risulta possibile un’operazione allora impensabile: osservare i due maestri senza la lente deformante dei blocchi culturali.

Il risultato non è un incontro conciliato, né una forzatura. È, come precisa Zanello, “un’analisi comparativa per differenza”, un modo per capire cosa accade quando due poli opposti vengono messi uno accanto all’altro. “Non era nostra intenzione cercare a tutti i costi un’assonanza. Volevamo vedere se, mettendoli vicini, emergessero punti in comune o differenze inattese”.
La tragedia come linguaggio comune
Il filo rosso che attraversa la mostra è la tragicità, quella evidente delle installazioni di Kounellis e quella nascosta, quasi rimossa, delle opere di Warhol: “Gli americani tendono a fermarsi alla superficie, mentre noi europei nell’arte cerchiamo sempre un senso. E dietro Warhol c’è un mondo che chiede di essere indagato: la morte, la fragilità, le figure marginali, la spiritualità. Tutte cose potentissime”.

In Kounellis la tragedia è incarnata nella materia. In Warhol, nella luce che rivela e insieme maschera. Entrambi lavorano sull’icona, anche quando l’immagine sembra distaccarsi dal sacro. L’oro ricorre in entrambi – nelle polaroid e nei fondi dorati, nei riferimenti bizantini e nell’immaginario cattolico – come un richiamo a ciò che sopravvive oltre il tempo: “La vera arte si ricontestualizza sempre. Come il Cenacolo o la Cappella Sistina: non sono opere del passato, ma del presente. E Kounellis e Warhol hanno ancora molto da dire”.
L’allestimento evita lo scontro diretto: i colori di Warhol non vengono messi a contrappunto brutale con la materia scabra di Kounellis. L’effetto non è quello di un’operazione teorica, ma di un dialogo possibile, costruito con rigore e il coraggio necessario per rivisitare due giganti senza pietrificarli: “Forse non siamo così matti. Provare a mettere insieme gli opposti nell’arte è raro. Ma è proprio così che possono nascere osservazioni critiche nuove”.












