
Il ruolo di Cosmè Tura nella decorazione dello Studiolo Belfiore a Ferrara, tra il 1458 e il 1463, con il ciclo delle muse voluto da Lionello d’Este
Cosmè Tura nasce a Ferrara nel 1433 e muore nella stessa città nel 1495. Secondo Vasari studiò presso la bottega di Galasso Ferrarese, più probabilmente fu influenzato da Michele Pannonio. Si ipotizza un suo soggiorno a Padova. Padova era una sorta di scuola superiore di cultura figurativa. Qui Tura frequenta la bottega di Francesco Squarcione, più importante centro di incontro artistico dell’Italia Settentrionale, di cui Tura è riconosciuto massimo rappresentante. Tornato a Ferrara prende parte alla decorazione dello Studiolo Belfiore, tra il 1458 e il 1463, con l’incarico di completare ed aggiornare al gusto di Borso d’Este il Ciclo delle Muse voluto precedentemente da Lionello d’Este.
I dipinti dello Studiolo di Belfiore costituirono la prima raffigurazione delle Muse dall’antichità. Il soggetto era molto diffuso nell’arte greca e in quella romana. Il progetto di Guarino da Verona era tratto da un commento medievale a “Le opere e i giorni” di Esiodo, dove le nove Muse, figlie di Zeus e Mnemosine, assumevano un significato propiziatorio legato alla coltivazione dei campi. La realizzazione del ciclo vide diverse modifiche in corso d’opera. Con la distruzione del Palazzo di Belfiore perpalazzo di Belfiore, un incendio nel 1632, le opere furono disperse. Sono oggi riconosciute sei delle nove tavole originarie: Erato ed Urania, goggi alla Pinacoteca Nazionale di Ferrara, Tersicore, oggi nel Museo Poldi Pezzoli di Milano, Talia, oggi al Museo Delle Belle Arti di Budapest, Polimnia oggi nella Gemaldegalerie di Berlino, Calliope oggi nella National Gallery di Londra. Euterpe e Melpomene, conservate a Budapest, furono riconosciute come facenti parte dello Studiolo Belfiore nel 1930, ma secondo una più attenta analisi iconografica sono state riconosciute dalla critica come appartenenti ad un altro ciclo sempre legato alle Muse.
Il supporto della Tersicore è composto da un grande asse centrale in pioppo e due listelli laterali ugualmente in pioppo, incollati con linee di giunzione appena visibili. In epoca antica il supporto è stato assottigliato e ridotto nelle dimensioni nella parte superiore ed inferiore. La superficie del dipinto è stata preparata con tre stesure di gesso e colla animale ed una stesura finale di sola colla. Il disegno della composizione e la stesura del colore sono realizzati in successive rielaborazioni. Le analisi stratigrafiche indicano che le stesure attribuibili alla prima fase di lavorazione sono state eseguite a tempera a uovo, in legante oleoso od oleo-resinoso gli strati riferibili al secondo intervento. Ad un restauro settecentesco sono da riferire ampie ridipinture che hanno anche modificato l’iconografia del dipinto. Il restauro realizzato nel 1987 vede la rimozione delle arbitrarie integrazioni pittoriche che ne avevano anche alterato l’ordine prospettico.
Per il Longhi i bambini sono interamente di mano del pittore ferrarese, mentre per il resto parla genericamente di un lavorante di Belfiore. Breeken, nel 1940, parlerà di due fasi pittoriche nella realizzazione del dipinto, la parte superiore ad opera di Maccagnino e quella inferiore di Tura. Il paragone iconografico con la Pala Roverella avvalora l’ipotesi dell’autorialità di Tura. La conoscenza dello scomparto centrale del trittico Bradelin di Berlino di Van der Wayden consente per analogia la datazione del dipinto al 1460. L’ultimo restauro ha eliminato l’iscrizione “ex deo est charitas et ipsa deus est” (la carità viene da Dio ed è Dio), direttamente legata alla Carità, facendo cadere questa ipotesi interpretativa che per lungo tempo era tata avvalorata. Per Baxandall, nel 1965, la raffigurazione aderisce compiutamente al profilo di Tersicore tracciato da Guarino da Verona. L’identificazione è confermata dalle coincidenze iconografiche con la Tersicore della Cappella delle Muse e delle Arti Liberali del Tempio Malatestiano di Rimini di Agostino di Duccio. Dal punto di vista non tematico ma compositivo, per la Eorsi l’iconografia della Tersicore di Tura richiama direttamente le rappresentazioni di Medea dei sarcofagi romani. La collocazione nella decorazione dello Studiolo Belfiore è invece stabilita da Gombosi nel 1933.

Il dipinto rappresenta una figura femminile seduta su di un trono eretto al centro di una pedana circolare sulla quale si muovono tre bambini nudi legati alla donna da un nastro. Il gruppo è proiettato sullo sfondo di un paesaggio riarso e di un’ampia porzione di cielo. La donna indossa un abito di velluto broccato decorato da grandi motivi a fiori di cardo, con lunghe maniche e una gonna con fitte pieghe stretta alla vita, in buona parte coperta da un panno blu steso sulle gambe. Il motivo della allacciatura del vestito allentato sul ventre rimanderebbe alla gravidanza o quantomeno alla fecondità. Anche l’acconciatura a capelli sciolti sembra associata al tema delle nozze. Mentre il corallo rosso sul collo dei tre bambini rimanda anch’esso alla fecondità.
L’analisi a raggi x ha rilevato alcuni mutamenti operati durante l’elaborazione pittorica del quadro. Nella prima stesura l’abito di Tersicore esibisce una scollatura più ampia e meno arrotondata. Il volto appare più aspro e angoloso, l’architettura del trono più sintetica, secondo una impostazione geometrica più in linea con quella delle altre tavole con muse sopravvissute, mentre le stoffa che lo ricopre risulta ritmata da regolari pieghe verticali. Interessante la lettura dei putti danzanti evidentemente mutati nella redazione finale. Nella prima impostazione è possibile cogliere la ricerca di un ritmo di movimenti più rapido che porta alla creazione di figure più piccole e di aspetto più infantile. E’ verosimile che in origine la tavola riproducesse nella zona inferiore all’interno di due targhe di cui si intravede il profilo alla base del trono l’esametro latino approntato da Guarino e quello greco formulato da Teodoro da Gaza.
Per la parte dipinta da Maccagnino, ci colpiscono le linee sinuose e movimenti eleganti, la cura del dettaglio e la rappresentazione realistica fiamminga, la composizione armoniosa e bilanciata, l’uso della luce. Per Tura l’unione di elementi provenienti da diverse scuole pittoriche: plasticismo donatelliano, realismo fiammingo, costruzione geometrica pierfrancescana, dinamismo e tridimensionalità mantegnesca. Padovani dice che Tura è il prodotto di cento incroci di scuole pittoriche, il frutto selezionatissimo di cento razze. Per Pallucchini trasferisce in una plastica quasi stalagmitica il suo mondo interiore supremamente lirico. Per Jouffroy l’espressione di certi pittori del ventesimo secolo surrealisti non è che il lontano prolungamento delle libertà prese da Cosimo Tura.

Le caratteristiche morfologiche del dipinto sono del tutto simili a quelle delle altre Muse. E consentono oggi di ritenere che i sei supporti siano stati ricavati dalla medesima porzione di tronco e approntati nello stesso momento. L’analisi grafica ha messo in evidenza una costante estremamente significativa: in ciascuna delle tavole l’immagine è costruita secondo la prospettiva centrale. Il punto di fuga giace sull’asse verticale dei troni di Urania e nella Calliope, è appena spostato a destra nella tavola con Erato. Mentre presenta uno scarto molto più netto nella Talia collocata presumibilmente in modo da imporre una visione non frontale, ma di lato. Nelle tavole raffiguranti Polimnia e Tersicore non è possibile individuare un punto di fuga unico. Nonostante nella Tersicore piattaforma e trono siano inequivocabilmente rappresentati in prospettiva centrale. Tutte le sei le tavole mostrano una visione fortemente scorciata di sotto in su che sembra indicare un basso punto di vista virtuale. Questi elementi consentono di formulare l’appartenenza allo stesso ciclo e una ipotesi sulla possibile posizione originaria delle tavole fissate alle pareti dello studiolo di Belfiore. Pensiamo avere un’idea di come doveva apparire il ciclo dalla ricostruzione virtuale eseguita dall’Università di Bologna.
Cosmè Tura, Francesco del Cossa, Ercole de Roberti fanno parte della cosiddetta officina ferrarese. Volume, spazio, luce, movimento, del rinascimento i tre pittori posseggono tutti gli aspetti esteriori, tute le angolazioni e le molteplici sfaccettature. Ma il vero fascino nasce dalla sensazione che essi comunicano di trovarsi ancora sul crinale fra due mondi diversi in se non opposti tra tradizione medievale e gotica e rinascimento. Ebbero in comune uno straordinario estro immaginativo e inventivo. Naturalmente ognuno di essi la visse alla propria maniera. Il Tura mediante forme e colori esasperati arriva alla raffigurazione di un mondo decisamente irrealistica. Il Cossa introduce nelle sue immagini l’idea del movimento sfuggendo alla rigida immobilità delle figure di Tura. Il De Roberti con dinamismo e deformazione portati a violenza espressiva, subordinando la propria fantasia inventiva a regola equilibrio classici. Il Salone dei Mesi del Palazzo Schifanoia a Ferrara è segno tangibile dell’ unione del loro operare e dei loro intenti artistici.
Bibliografia
Alberto Neppi, Cosmé Tura, Gastaldi Editore, Milano, 1953
Bernard Berenson, I pittori italiani del Rinascimento, Sansoni, Firenze, 1963
Eugenio Riccomini, I maestri del colore, Cosmè Tura, Fabbri Editore, Milano, 1965
Rosemarie Molajoli, L’opera completa d Cosmè Tura e i grandi pittori ferraresi del suo tempo: Francesco del Cossa ed Ercole De Roberti, Rizzoli, Milano, 1974
Roberto Bellucci, La scuola ferrarese: indagini e confronti tecnici sulle Muse dello Studiolo di Belfiore, Opd. Restauro, nr. 4, Firenze, 1992
AA.VV. Le muse e il principe: Arte di corte nel Rinascimento padano, Franco Cosimo Panini, Modena, 1995
Anna Eorsi, Da Medea attraverso l’amore a Tersicore, Akademiai Kiado, Budapest, 2004
Marcello Toffanello, Cosmè Tura, Giunti Editore, Milano, 2008
Roberto Longhi, Officina ferrarese, Abscondita, 2019









