
Il dramma del popolo palestinese e l’importanza del dialogo interreligioso fra i temi al centro del festival di Monza
La seconda edizione di Monza Photo Fest, rassegna diffusa di fotografia d’autore, fino al 6 gennaio invita il pubblico a riflettere di emozionarsi attraverso la forza delle immagini. “La fotografia – dichiara Roberto Mutti, direttore artistico del festival – è un linguaggio che da sempre si distingue per due sue caratteristiche di fondo: quella di rapportarsi con la realtà per interpretarla e quella di cercare lo stile più adatto e innovativo per farlo. Abbiamo tenuto ben presente tutto questo per dar vita a un programma che propone momenti di intensa riflessione incentrandosi su un valore particolarmente importante in questi difficili tempi, quello del confronto. Lo si troverà nel dialogo a distanza fra mostre che affrontano temi di urgente attualità e altre che indagano sui sorprendenti esiti della ricerca sul linguaggio fotografico, fra la ribadita vitalità di autori affermati e il desiderio di mostrare il proprio valore di giovani emergenti, fra la centralità istituzionale del Festival e il contributo della sezione Off che ribadisce come caratteristica della manifestazione il suo essere diffusa in tutta la città. Abbiamo infine pensato che, se un sempre più numeroso pubblico si avvicina alla fotografia, è giusto che sia anche quest’ultima ad avvicinarsi al pubblico: da qui l’idea di una serie di affissioni firmata da Manifesto Brianzolo che rappresenta una innovativa proposta espositiva”.
Le mostre ufficiali del festival, ospitate nei più importanti spazi pubblici istituzionali, pongono l’attenzione su tematiche di grande rilevanza della realtà contemporanea quali il dramma del popolo palestinese e l’importanza del dialogo interreligioso. La Sala Espositiva Binario 7 accoglie la collettiva I Grant You Refuge che si propone di dare voce e visibilità alle sofferenze e alle atrocità che il popolo palestinese sta subendo, grazie alle straordinarie immagini fornite da sei fotografi della Striscia di Gaza (Jehad Al-Sharafi, Mahdy Zourob, Mohammed Hajjar, Omar Ashtawy, Saeed Jaras, Shadi Al-Tabatibi), in rappresentanza delle decine di fotoreporter che vivono e lavorano nella zona, come testimoni oculari di uno dei conflitti più devastanti del nostro tempo.

Il titolo della mostra – curata dal fotografo e filmaker documentarista Paolo Patruno – trae ispirazione dall’omonima poesia della scrittrice e poetessa palestinese Hiba Abu Nada, uccisa nella sua casa nel sud di Gaza da un raid israeliano il 20 ottobre 2023. “Un’esposizione bellissima e straziante. La fotografia che viene da dentro. E abbiamo fatto in modo che le foto più toccanti siano stampate in formato più piccolo perché è già così palese il dolore e lo sfacelo della guerra”.
“La speranza è invece protagonista ai I Musei Civici Monza”, sottolinea Mutti, “sono fotografie di elementi particolari che segnano il dialogo tra le tre religioni monoteistiche che si affacciano sul Mediterraneo”. Parla della mostra di Francesca Moscheni I Segni di Dio, un viaggio emozionale tra luoghi di culto, oggetti e simbologie. L’idea di fondo di questo lavoro è quella di cogliere quanto di simbolicamente significativo emerge nei segni delle civiltà, di accostare, fondendoli, elementi di una spiritualità che avvicina le tre grandi religioni monoteiste nate nell’area del Mediterraneo – Ebraismo, Cristianesimo e Islam – facendo emergere una bellezza del sacro che va oltre la sola dimensione della devozione. Guidata da una rigorosa visione laica, la fotografa propone una riflessione di alto profilo che si contrappone all’intolleranza di quanti sostengono la supremazia di una sola credenza sentendosi così superiori e proprio per questo non lo sono.

Nello spazio MANZONI 16, è presente invece la suggestiva esposizione di Raoul Iacometti Vento [eterno movimento]. “Le foto potenti sono di grande formato e Iacometti si è affidato per la stampa a Roberto Berné, uno dei più raffinati stampatori italiani”, commenta il Direttore artistico. Raoul Iacometti si è misurato con un tema difficile ma affascinante. È andato, si può dire, incontro al vento per catturarne l’effetto avvolgente e travolgente in una sorta di lotta/ abbraccio, con una modella e lunghissimi teli di stoffa. Nel panorama abbagliante di Fuerteventura ha fissato i mille disegni che la forza dell’aria traccia con il tessuto e il corpo umano, nella sorpresa continua che il vento propone. Il repentino variare di intensità, direzione e continuità regala momenti inattesi entusiasmanti e spiazzanti, costringendo a una rincorsa che alla fine premia per la forza delle immagini ottenute.
La Galleria Civica presenta due mostre che mettono a confronto due autori che lavorano sul linguaggio fotografico: Alveari urbani di Nicolò Quirico, la cui ricerca ruota attorno alla memoria e alla storia, creando opere che uniscono visione reale e immaginata, e “Fontanesi: come se fosse vero” di Fontanesi, misterioso fotografo celato sotto questo pseudonimo, che lavora su accostamenti di frammenti di realtà che generano immagini nuove tutte giocate sul paradosso. “Fontanesi è uno pseudonimo. Lui è misterioso, come Elena Ferrante. Non si sa chi sia, non si è visto all’inaugurazione e non vuole rivelarsi”, precisa Roberto Mutti.

Nelle opere di Quirico le città – con le loro architetture, geometrie e volumi – si fondono con i libri, custodi della conoscenza e delle esperienze di chi quelle città le ha costruite e abitate. L’autore ha messo a punto una tecnica originale che unisce la fotografia a collage di pagine di libri antichi, rendendo il supporto parte integrante dell’opera. Questo procedimento genera lavori sempre unici e ricchi di materia, in cui l’immagine formale dell’edificio si sovrappone alla testimonianza silenziosa del passato custodita nei testi. Ogni facciata urbana diventa il volto visibile di una storia in continua scrittura; ogni pagina, un mattone simbolico della nostra cultura.
Nel lavoro di Fontanesi l’immagine è una promessa ambigua: rassicura con la sua verosimiglianza, ma tradisce al primo sguardo attento. Non è solo illusione visiva, ma una costruzione paziente di inganni eleganti calibrati con precisione. I frammenti si incastrano con naturalezza, ma nulla è naturale: ogni taglio, ogni simmetria improbabile, ogni combinazione suggerisce una realtà alternativa, perfettamente plausibile — come se fosse vera. L’autore non impone una narrazione, ma suggerisce un dubbio.

Le sue immagini non chiedono di essere credute, bensì osservate. L’occhio, abituato a cercare coerenza, si affida all’intuizione più che alla logica, ma è proprio lì che avviene lo slittamento: ciò che sembra vero non regge all’analisi, e ciò che è inventato convince. Come se fosse vero è un invito: non a fidarsi, ma a lasciarsi ingannare con complicità. In un’epoca in cui l’immagine è spesso prova, Fontanesi la usa come ipotesi. E il risultato non è una verità, ma una possibilità.










