Una raccolta di articoli pubblicati nel 1976 sulla rivista Artforum; Un saggio ancora attuale ed illuminante. Uno scrittore/artista influente le cui analisi hanno segnato una svolta decisiva nella percezione dell’arte. Brian O’Doherty ci guida attraverso un lungo e complesso percorso di esplorazione del contesto in relazione all’arte del novecento. Delineando una traccia analitica e al contempo descrittiva, l’autore ci coinvolge in una serie di riflessioni profonde sul mutamento della società e del sistema dell’arte.
Ricorrendo ad esempi concreti tratti dalla storia, il testo compie uno studio approfondito sullo spazio espositivo e sul suo ruolo all’interno dell’ordinamento vigente.
Nel passato lo spazio era costruito “in base a leggi rigorose come quelle che presiedevano all’edificazione di una chiesa medievale”. Le finestre erano in genere sigillate, i muri dipinti di bianco e il soffitto diventava fonte di luce. Il mondo doveva restare fuori e l’arte doveva essere libera di “vivere la sua vita”. Il White cube era una sorta di contenitore ermetico che preservava le opere al suo interno per l’eternità, rendendole immuni ai cambiamenti esterni e alle diverse caratteristiche del tempo.
Con l’avvento del modernismo lo spazio espositivo diventa l’oggetto della scena. La sacralità del luogo non è più dettata dalle opere che vi sono esposte ma è lo spazio che rende “sacro” tutto ciò che vi entra. Questa trasformazione va di pari passo con l’evolversi delle correnti artistiche e di pensiero ma anche con il mutamento della società e dei suoi valori. È molto difficile individuare con precisione le tempistiche di questo cambiamento ma si possono senz’altro individuare specifici eventi che hanno generato importanti reazioni; in particolare con la sua installazione 1200 sacchi di carbone Marcel Duchamp causa un forte scompiglio e ribalta la concezione del white cube, catalizzando il processo sopra descritto.
In occasione della “International Exhibition of Surrealism” a new York nel 1938, l’artista appese al soffitto 1200 sacchi di carbone mettendo letteralmente sottosopra la mostra. Il soffitto si era trasformato nel pavimento e i visitatori si ritrovavano a testa in giù.
Per la prima volta lo spazio espositivo viene trattato come una scatola, una vetrina da manipolare. Il white cube inizia a divorare l’oggetto, il contesto ruba la scena all’opera esposta che rende arte qualunque cosa vi entri.
Con l’affermarsi delle gallerie, lo spazio assume un ruolo elitario e viene severamente controllato da questa nuova istituzione che si presenta come una boutique in grande stile. Un luogo spettacolare dove avvengono scambi commerciali. Il pubblico si muove nello spazio lasciandosi guidare dal gusto del gallerista. Entrando nella sede lo spettatore accetta implicitamente di adeguarsi a decisioni già formalizzate.
La galleria può anche restare vuota, essere riempita di immondizia (Arman, Le Plein, 1960), rimanere chiusa per tutta la durata della mostra (Robert Barry, 1969), simulare uno spazio della vita reale come lo studio dell’artista trapiantato nello spazio, essere impacchettata insieme all’intero edificio (Christo e Jeanne Claude) oppure ospitare performance. Queste stesse scene, fuori dal white cube non desterebbero la minima attenzione ma al suo interno anche il più banale gesto diventa arte, un’esperienza che va oltre il guardare.
Ricorrendo ad esempi concreti tratti dalla storia, il testo compie uno studio approfondito sullo spazio espositivo e sul suo ruolo all’interno dell’ordinamento vigente.
Nel passato lo spazio era costruito “in base a leggi rigorose come quelle che presiedevano all’edificazione di una chiesa medievale”. Le finestre erano in genere sigillate, i muri dipinti di bianco e il soffitto diventava fonte di luce. Il mondo doveva restare fuori e l’arte doveva essere libera di “vivere la sua vita”. Il White cube era una sorta di contenitore ermetico che preservava le opere al suo interno per l’eternità, rendendole immuni ai cambiamenti esterni e alle diverse caratteristiche del tempo.
Con l’avvento del modernismo lo spazio espositivo diventa l’oggetto della scena. La sacralità del luogo non è più dettata dalle opere che vi sono esposte ma è lo spazio che rende “sacro” tutto ciò che vi entra. Questa trasformazione va di pari passo con l’evolversi delle correnti artistiche e di pensiero ma anche con il mutamento della società e dei suoi valori. È molto difficile individuare con precisione le tempistiche di questo cambiamento ma si possono senz’altro individuare specifici eventi che hanno generato importanti reazioni; in particolare con la sua installazione 1200 sacchi di carbone Marcel Duchamp causa un forte scompiglio e ribalta la concezione del white cube, catalizzando il processo sopra descritto.
In occasione della “International Exhibition of Surrealism” a new York nel 1938, l’artista appese al soffitto 1200 sacchi di carbone mettendo letteralmente sottosopra la mostra. Il soffitto si era trasformato nel pavimento e i visitatori si ritrovavano a testa in giù.
Per la prima volta lo spazio espositivo viene trattato come una scatola, una vetrina da manipolare. Il white cube inizia a divorare l’oggetto, il contesto ruba la scena all’opera esposta che rende arte qualunque cosa vi entri.
Con l’affermarsi delle gallerie, lo spazio assume un ruolo elitario e viene severamente controllato da questa nuova istituzione che si presenta come una boutique in grande stile. Un luogo spettacolare dove avvengono scambi commerciali. Il pubblico si muove nello spazio lasciandosi guidare dal gusto del gallerista. Entrando nella sede lo spettatore accetta implicitamente di adeguarsi a decisioni già formalizzate.
La galleria può anche restare vuota, essere riempita di immondizia (Arman, Le Plein, 1960), rimanere chiusa per tutta la durata della mostra (Robert Barry, 1969), simulare uno spazio della vita reale come lo studio dell’artista trapiantato nello spazio, essere impacchettata insieme all’intero edificio (Christo e Jeanne Claude) oppure ospitare performance. Queste stesse scene, fuori dal white cube non desterebbero la minima attenzione ma al suo interno anche il più banale gesto diventa arte, un’esperienza che va oltre il guardare.
Scheda tecnica:
Titolo Inside the white cube. L’ideologia dello spazio espositivo
Autore O’Doherty Brian
Prezzo € 17,00
Autore O’Doherty Brian
Prezzo € 17,00
12 recenzioni in 4 anni….un pò poche.