L’urgenza nel DNA dell’attore e il teatro come missione. Questi i due capisaldi del laboratorio con attori professionisti e non appena conclusosi a Bari tenuto da Cathy Marchand, storica componente del Living Theatre fondato da Julian Beck e Judith Malina sin dagli anni ’70. La Masseria CEA (Centro Educazione Ambientale) a Modugno (BA) è stata la cornice dell’ultimo appuntamento previsto dalla rassegna “Io: Stupore 2016. Pratiche di centratura teatrale fra mito e merda” che si è svolto dal 4 al 7 agosto con il focus su Antonin Artaud e la ritualità della peste. Cathy Marchand è un’insegnante che si diverte ancora molto e un’attrice che non mostra nostalgia verso il passato.
Cathy Marchand appare come una devota nei confronti della figura dell’attore nella misura in cui mostri la sacralità del proprio ruolo e non ceda il proprio ego all’iconoclastia, ma alla pratica della messa in scena. L’attore deve invadere ed essere scomodo, trascinando budella e ventre piuttosto che intelletto. “Il teatro della crudeltà” di Artaud rappresenta per la Marchand il timore della follia e il tatto meno antropocentrico che spinge a rompere la barriera attore-spettatore, innanzitutto nell’attore.
Il laboratorio che abbiamo seguito nella penultima giornata di formazione si è sviluppato attorno al racconto della peste di Artaud (“Il Teatro e il suo doppio”) e all’ascolto della della voce registrata di Artaud in “Per farla finita col giudizio di dio”, censurata dalla radio francese alla vigilia della messa in onda prevista per il 2 febbraio 1948.
La voce punteggiata dalla follia di quegli anni lasciava emergere la putrefazione dei sentimenti verso “lo sperma che produce l’esercito americano” e la vocazione per “il popolo che prende i frutti dalla terra”. La guerra e la rinascita dal buio, la vita stupida e pura e l’accusa di blasfemia per l’incitazione a “spezzare la croce”, Cathy Marchand ha chiesto agli attori di farsi invadere da queste sensazioni e di provare – ognuno a suo modo ma insieme, come fosse un rituale condiviso – la peste.
Stare sulla follia in un laboratorio teatrale può rasentare lo psicodramma – che si è in qualche modo realizzato nel dolore psicologico più che fisico manifestato dagli attori – ma la Marchand ha insistito sul confine tra follia come specchio e follia come genialità creativa. La follia di Artaud non rompeva l’arte ma superava se stessa. Fermarsi allo specchio produce la malattia.
La biforcazione tra attore/creatore e attore/interprete è ciò che C.M. evoca per raccogliere l’esperienza del Living Theatre: il teatro è gioia dei corpi che non si potenzia nella contrizione dell’espiazione di stampo religioso o nella sofferenza come nel teatro di Grotowski, piuttosto nella verità di porsi al centro come fine ultimo. Il lavoro di gruppo si basa sui rituali, le convergenze, la capacità di staccarsi dagli altri nel bel mezzo del gruppo e sul corpo, assenza quasi totale di suoni.
Il rapporto fra lettura dei testi, interpretazione e sensazione ha innescato un’interessante discussione sulla struttura della recitazione. La messa in scena della comparsa dei sintomi della peste non può verosimilmente essere un’isteria collettiva. Sentire i bubboni della peste produce uno sconvolgimento mostruoso e fastidioso, si passa dallo schifo alla paura per la propria fragilità. Ogni attore ha mostrato i sintomi del gruppo divergendo da quella verità del corpo singolare che il Living Theatre ha esaltato.
Abbiamo incontrato Cathy Marchand per una breve intervista sulla sua esperienza di attrice e formatrice.
Com’è nata l’idea di riproporre oggi il lavoro del Living Theatre nella formazione?
Ho iniziato ad insegnare dopo l’incontro con il prof. Marotti dell’Università La Sapienza e non ho più smesso. La volontà di portare avanti dei laboratori non è nata dall’idea di rifare il Living Theatre. Sarebbe impossibile e senza senso oggi. Come diceva Pasolini “Il Living Theatre può essere fatto solo dal Living Theatre”. Per me rappresenta una missione. Credo fortemente nella trasmissione di questa forma teatrale che ho sperimentato negli anni ’70 perché ha ancora senso insegnare l’urgenza del mestiere dell’attore. Sento che il piacere della recitazione debba corrispondere al dolore di farlo. Senza capirlo e senza scelta, a tratti.
Questa sorta di precipitazione nell’esistenza dell’attore è legata al rapporto fra teatro e vita?
Il rapporto fra teatro e vita non esisteva nel Living, nel senso che non c’era separazione. La rottura della barriera tra attori e pubblico andava nella direzione di screditare la scenografia. I corpi degli attori sono la scenografia, ovunque si trovino. Per esempio, trovo che oggi la danza abbia da dire molte più cose del teatro. In “Sei atti pubblici” che abbiamo portato a Lecce come Living io e altre attrici abbiamo rischiato di essere aggredite per via di un certo erotismo accennato per le strade pubbliche!
Cosa l’ha spinta a proporre un laboratorio su Artaud per “Io: Stupore 2016”?
La scelta di Artaud e della ritualità della peste è più attuale che mai. L’ho pensata in seguito ai fatti di Parigi e alla strage di Charlie Hebdo. Lavoro molto sulla ritualità, sulla costruzione del puro e dell’impuro e impongo lentezza – quasi orientale – nei miei laboratori.
2 Commenti
La signora Caterina Vannelli mi deve da 3 anni dei soldi che mi chiese in prestito e da un po’ non mi risponde nemmeno più alle telefonate… Questa è la Cathy Marchand che conosco io… Meditate gente, meditate
La signora Caterina Vannelli mi deve da 3 anni dei soldi che mi chiese in prestito e da un po’ non mi risponde nemmeno più alle telefonate… Questa è la Cathy Marchand che conosco io… Meditate gente, meditate