«Non credo di poter parlare di sogno ma di un bi-sogno che maturava man mano nella mia mente da quando ero bambino. Quello di avere una vita artistica e di raggiungere una meta attraverso l’arte»
Cappello di feltro nero, lunga barba bianca, tono di voce profondo e pacato Michelangelo Pistoletto si racconta ad ArtsLife nell’ambito della 15ma Rassegna Letteraria di Vigevano ‘La realtà vince il sogno?’. Utopia, ideali, sogni (fino al 22 ottobre 2016).
Da quando ha cominciato a sognare?
Io non credo di poter parlare di sogno, ma di bi-sogno che man mano maturava nella mia mente da quando ero bambino. Una vita artistica, il desiderio di raggiungere una meta attraverso l’arte. Mio padre dipingeva ed era restauratore di mobili antichi e voleva realizzare la sua vita nell’arte. Lui credeva nella riproduzione perfetta della Natura. Aveva un canone di bellezza realistico e di conseguenza non ha potuto continuare e vivere la realtà del Novecento perché l’arte moderna aveva tagliato i ponti con quell’ideale. Quando ero bambino vivevo nello studio di mio padre e nella mia vita ho realizzato il suo sogno che era anche un sogno di mia madre. Fu lei ad iscrivermi alla scuola di pubblicità di Armando Testa a Milano dove ho scoperto come l’arte contemporanea avrebbe potuto influenzare la comunicazione pubblicitaria. Era il periodo in cui l’astrattismo si stava affermando a livello mondiale ma ho pensato di dover risolvere il problema partendo dalla figurazione. In particolare con l’autoritratto. Ho dipinto anche la mia figura di schiena come se stessi guardando lo sfondo.
L’arte come specchio della realtà?
Lo speculare in sé. Il mio autoritratto allo specchio nel quale poi, in un secondo momento, entrava il pubblico. Quindi l’autoritratto del mondo: era il mondo che si rifletteva nella mia opera. Era nato il quadro specchiante. Un punto di arrivo importante della mia ricerca.
Quali sono state le reazioni a questo suo lavoro sperimentale?
Il mio gallerista di allora non ha apprezzato molto il quadro specchiante e ci rimasi molto male. Partii quindi per Parigi e per New York dove ebbi la fortuna di essere apprezzato da Leo Castelli che mi fece entrare nella sua galleria nel periodo in cui era in piena esplosione l’arte Pop. Divenni l’unico artista italiano a New York e lì raggiunsi il successo. Intorno a trent’anni. Tuttavia il mio sogno non era il successo ma che ad avere successo fosse la mia ricerca: il passaggio da una forma di pittura statica e inerme ad una pittura dinamica. Era stato anche il sogno del futurismo se vogliamo, introdurre cioè lo spazio – tempo nell’opera. Il quadro specchiante è veramente il quadro in movimento.
Dalla Pop Art all’Arte Povera. Come è cambiata la sua opera nel suo percorso di ricerca?
Non ho mai abbandonato la Pop art. È stata l’affermazione dell’immagine popolare e commerciale sull’arte astratta. L’opera oggettiva e fruibile da tutti. Per me tuttavia il mondo da capire non era solo il mondo americano. Partecipai quindi ad una mostra collettiva con altri artisti che come me volevano sottrarsi al grande successo mediatico dell’arte Pop. Proposi in quell’occasione ‘Oggetti in meno’: opere – oggetti che si sottraggono al mondo commerciale. Tra le diverse opere realizzate in quel periodo, c’è anche ‘La Venere degli stracci’. L’ Icona dell’arte povera. Un’ opera che rappresenta la bellezza della Venere accostata a un oggetto da pattumiera: una montagna di stracci. Era un periodo di profondo cambiamento artistico e sociale, erano gli anni 1967/68.
L’Arte Povera è un approdo a una forma d’arte ideale?
L’Arte Povera non è basata sul sogno ma sulla fenomenologia, su qualcosa cioè che si fonda sul suo processo. Sono opere scientifiche. Lo specchio come rappresentazione dello Zero, del Nulla. La divisione dello Zero porta alla sua dualità fino all’Infinito ed oltre. Nascono in questo periodo opere come ‘Metro cubo all’infinito’, un cubo dalle facciate specchianti. Simbolo della dimensione spazio temporale eterna. E’ il mio Terzo Paradiso, la terza fase dell’Umanità che si realizza nell’equilibrio tra i due poli opposti di Natura e Artificio, teorizzato con un manifesto nel 2003. Terzo Paradiso significa il passaggio a uno stadio inedito della civiltà planetaria, indispensabile per assicurare al genere umano la propria sopravvivenza. A tale fine occorre innanzi tutto ri-formare i principi e i comportamenti etici che guidano la vita comune. Il Terzo Paradiso è il grande mito che porta ognuno ad assumere una personale responsabilità nella visione globale. Il termine paradiso deriva dall’antica lingua persiana e significa “giardino protetto”. Noi siamo i giardinieri che devono proteggere questo pianeta e curare la società umana che lo abita.
Ha fondato la Città dell’Arte, un luogo – non luogo situato geograficamente a Biella. La realtà che si fonde con il sogno …
La Città dell’Arte rappresenta esattamente lo spazio di passaggio tra la Realtà e l’Utopia. Sono stato considerato un visionario quando l’ho aperta: un luogo fisico nel quale il mondo poteva entrava per uscire attivato dall’arte. La presentazione ufficiale è avvenuta a Pistoia e l’idea che l’arte debba aiutare il mondo a fare un passaggio che si realizza in una nuova visione sociale è stata molto apprezzata. Pura Utopia, certo, ma ecco il sogno. Lo chiamo semplicemente progetto d’arte. Ho comprato un luogo a Biella e se Utopia vuol dire un non luogo, un primo passo oltre l’Utopia c’è già. Nella città dell’arte si realizza e consolida il Rapporto Arte/Società. È divisa in tantissimi uffici, chiamati Uffizi (in onore al Rinascimento) ognuno con la propria e autonoma forma di ricerca. È qui che si realizza L’artista-architettetto che fa lo spazio sociale ed urbano. L’architettura come forma di vivere. Un vero e proprio habitus mentale. Sono partito dal rapporto tra individuo (uomo) e lo spazio. La mia proiezione dell’uomo vitruviano rappresenta esattamente la realtà del sogno.
Maestro ho cercato di sintetizzare i tuoi insegnamenti nel mio progetto / esposizione S.E. Rifletti
Valeria Franchi