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L’Haring affumicato. La «disinformazia» del Contemporary

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About Art è il titolo della muscolare mostra che Palazzo Reale di Milano dedica a Keith Haring fino al 18 giugno. Infatti ben 110 opere divise in sezioni si distribuiscono sulle pareti nell’azzardato tentativo di conferire una rilettura “nobile” del lavoro del campione del Graffitismo.
Sull’onda del mood imperante che intravede in un ipotetico legame con il Passato e la Storia l’espediente per creare quarti di nobiltà alle creazioni contemporanee, i curatori della mostra, con sprezzo del pericolo, audacia post moderna e baldanza intellettuale non hanno esitato: dalla Colonna Traina in su, Masaccio, Caravaggio, Bernini, Picasso, Pollock… dal Manzanarre al Reno… dall’uno all’altro mar. Insomma, come se ascoltando Like a Virgin o Papa Dont’ Preach di Madonna si intravedessero assonanze con i canti gregoriani o madrigali medioevali. Mah!

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Gran fatica per nulla. Il lavoro di Haring vive benissimo di suo, mantiene una sua freschezza proprio perché autentica espressione dei fab eighteen, della N.Y. da bere, della bulimia vitalistica, declinazione edonistica dell’egotismo nevrotico dei decenni precedenti. Anni borderline, di folle ricerca del piacere per il piacere, di debordante magnetica energia con il retrogusto amaro della perdizione e della tenebrosa nera ala dell’HIV.

Ecco, Keith Haring è quella roba lì, un vorace divoratore di immagini e suggestioni che risputa con la sua grafia su ogni superficie, non un raffinato e colto viaggiatore nel tempo.

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Comunque, al netto dei miei deliri, le opere esposte sono belle e significative e chi non le conosce ha una buona occasione per farsene un’idea.

Ah, consentitemi un’ultima considerazione. Dopo anni di limbo e piccoli sussulti, le opere di Haring hanno ricominciato a registrare un risveglio economico ed un nuovo interesse espositivo.
Pare, dicitur, che Jose Mugrabi, già grande rastrellatore di opere di Andy Warhol, ci abbia messo gli occhi sopra…

il vostro L.d.R.

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