La scintillante stagione degli Anni Ruggenti in America e in Europa, fra espansione economica e società dei consumi, fra angosce esistenziali e incubi totalitari, raccontata dagli artisti dell’Art Déco. Ai Musei San Domenico di Forlì, fino al 18 giugno 2017.
Forlì. Duramente provata dalla Grande Guerra e sconvolta nei suoi assetti socio-politici, l’Europa degli anni Venti era alla ricerca di un nuovo equilibrio, così come di punti di riferimento che legittimassero l’appartenenza al nuovo ceto dominante stabilissero la nuova architettura sociale. Al Vecchio Continente si affiancarono gli Stati Uniti d’America, in un legame sempre più stretto ci scambi commerciali e contatti culturali; a quest’ultimo proposito, ricordiamo la Lost Generation che svernava sulla Riviera francese.
Immiserita dalla guerra, ma superati i disordini del 1919-22, l’Europa si era avviata sulla china dell’espansione industriale e della ripresa economica, costruendo una società sempre più borghese, desiderosa di abbandonarsi alla gioia di vivere, in una sorta di riedizione della Belle Époque che tradiva il malessere dell’alienazione urbana, l’angoscia per le tensioni politiche, il dolore dei ricordi della guerra. Ma ogni epoca ha la sua iconografia, la sua narrativa estetica che la immortala per i secoli a venire; quell’Europa, e quegli Stati Uniti furono raccontati dall’Art Déco, un fenomeno che vide il diffondersi dell’arte su vasta scala, o meglio di un codice estetico applicato alla creatività nei suoi aspetti più vari: dall’ebanisteria all’arredamento, dagli abiti agli accessori, dalla pittura alla scultura; queste ultime si legano sempre di più al racconto della quotidianità borghese, fatta di mondanità e stravaganze. L’arte diventa una sorta di bene di consumo, oltre a determinare l’appartenenza al ceto al potere, ovvero quella borghesia che dopo il 1918 ha definitivamente soppiantata l’aristocrazia. Borghesi sono armatori e capitani d’industria, in un’Europa che sta lasciandosi alle spalle la millenaria civiltà rurale, legata al latifondo e al rapporto di semi-vassallaggio fra contadino e padrone. E un ceto che si sta affermando, necessita di un’iconografia nella quale potersi specchiare e che ne legittimi le aspirazioni.
L’Art Déco, nella sua essenza, è la rappresentazione del nuovo quadro sociale, ma impercettibilmente rovescia i rapporti: compenetrata con il mercato della produzione su vasta scala di oggetti, arredamento, abiti, l’arte non è più un misuratore della società come essa le si presenta; è l’arte stessa (divenuta mercato e spettacolo) che dà il tono alla società, la plasma secondo le esigenze della produzione industriale, coadiuvata dalla pubblicità, dal cinema, e più tardi dalla televisione. In quest’ottica, l’Art Déco aprì la strada alla Pop Art di Andy Warhol (che di popolare avrà soltanto l’aggettivo); il suo tratto caratterizzante fu il razionalismo delle linee, in netto contrasto con le sinuosità dell’Art Nouveau, che aveva chiuso l’Ottocento; si imposero forme a zigzag o a scacchi, (anticipazioni della Op Art e dello Spazialismo di Dadamaino), così come materiali quali alluminio, acciaio inossidabile, lacca, legno intarsiato, pelle di squalo o di zebra. Al fianco delle avanguardie cubista, fauve, futurista, le Secessioni, nacque un’arte di consumo, che comunque vantava pregi estetici d’indubbio livello, in particolare nell’Italia fascista – votata nel bene e nel male all’esaltazione nazionalistica e al raggiungimento della modernità industriale per fini sociali ma anche politici -, dove fiorì una vasta produzione di artigianato artistico che andava dalle ceramiche di Ponti e Gariboldi ai lampadari di Venini e Marinuzzi, dagli arazzi di Depero, alle argenterie dei Finzi e la mobilia di Lancia e Portaluppi. Una sapienza artigiana sviluppata su vasta scala, apprezzata nel mondo e che contribuì anche al risollevamento economico del Paese. Oltre a costituire lo sfondo ideale dei romanzi di Liala e D’Annunzio, così come alle pellicole dei “telefoni bianchi”. Questa dinamica sancisce la massificazione dell’arte sempre più intesa come bene di consumo, spogliandola sempre più di quell’autenticità che caratterizza le opere pensate come unicum. L’opera diviene un qualcosa di decorativo, un simbolo di ricchezza e di potere che il compratore ostenta in maniera sempre più sfacciata, e sempre più il mondo dell’arte si sovrappone a quello dello spettacolo (il cinema negli anni Trenta, e la televisione tre decenni più tardi) per aumentare la sua vendibilità.
Ma non di sola decorazione è fatta l’Art Déco: l’antologica forlivese è occasione di riscoperta di un controverso periodo della storia italiana ed europea, sospesa fra due guerre mondiali e l’incubo dei totalitarismi, e che pure ebbe la forza e la spregiudicatezza di inventare la modernità, non solo tecnologica e industriale ma anche sociale. La decadenza del mito del Superuomo, di una società eroica ed atletica, porta alla nascita delle prime manifestazioni di cultura libertaria, anche omosessuale: in particolare nella paradossale Germania di Weimar, si consolidò il movimento dei Wandervögel, propugnatore del libertinaggio come stile di vita,estremo tentativo di allontanare i fantasmi dell’oppressione politica. Nelle grandi città, a partire da Berlino, proliferavano i night e i cabaret, alcuni riservati agli omosessuali, e i pitturi della Nuova Oggettività, assieme ai registi cinematografici (von Sternberg su tutti), ne raccontarono gli scenari. In Italia lo stile Déco ebbe dimensioni più strettamente legate all’orizzonte della provincia, eccezion fatta per le realtà di Milano, Roma e Torino. Tuttavia, sulla scia del regime fascista, si affermò una borghesia industriale che costituì, nel bene e nel male, la spina dorsale del Paese; una società legata all’ostentazione del lusso, anche sulla scorta della teatralità dannunziana che dal primo Novecento era divenuta un’autentica moda. La mondanità esplode, grazie alle “scoperte” del turismo balneare stivo, della settimana bianca in montagna, dei locali che aprono in ogni città, anche questi caratterizzati da un’architettura in tono con il nuovo corso. In mezzo a queste luci, c’è una nuova protagonista: la donna, sempre più disinibita (almeno in città) e indipendente, come dimostrano le tele di Alberto Martini e Anselmo Bucci.
Le loro donne somigliano a tante eroine dannunziane, divorate da una pensosa passione per l’uomo ma ancora di più per la vita, nelle cui vene scorre sangue raffinato che non disdegna l’abiezione (Moravia ne Gli indifferenti ha ben affrontata la questione), e determinate a rivendicare un ruolo attivo nella società. Società che si muoveva in una cornice di architetture imponenti e raffinate, di salotti ingombri di oggetti e tessuti preziosi (esemplare quello dipinto da Cavaglieri in Piccola russa), in una atmosfera che del Decadentismo ha perduta la posa contemplativa. In omaggio a D’Annunzio, le pose sono adesso declamatorie, la borghesia ostenta la propria ricchezza, e il regime i propri “muscoli”. L’influenza tedesca si fece sentire in quegli artisti di estrazione mitteleuropea, come il triestino Oscar Hermann Lamb, che indaga l’omosessualità femminile ne La coppa verde (1933), tela dalla magnifica e algida sensualità sottilmente morbosa, che si ritrova appena diversa nelle pagine di Thomas Mann. Paradossi della storia: la medesima società, libertina e libertaria, manifesta in modo sempre più convinto la sua adesione al nazionalsocialismo. Segno evidente del malessere che cova sotto le ceneri della ripresa economica e del rilancio industriale, un malessere che viene da lontano, da quella fine d’Ottocento che aveva decretata la “morte di Dio” Senza conoscere questi precedenti, non si può capire il significato dell’Art Déco.
Negli Stati Uniti d’America, l’Art Déco fu un ancor più rutilante circo di eccessi e stravaganze, amplificato dal jazz, dai musical di Broadway, dalla spregiudicata letteratura di Francis Scott Fitzgerald (magistrale il suo Grande Gatsby), fra i pochi, con Gertrude Stein, ad avvertire la discesa verso l’abisso esistenziale.
Anche nella dinamica società americana sempre più si stavano affermando le donne come soggetti attivi nel mondo del lavoro e dell’attivismo politico; nell’agosto del 1920, il Congresso riconosce loro il diritto di voto, mentre le dive del cinema propongono modelli femminili sempre più audaci e disinibiti. In campo artistico, Tamara de Lempicka fu tra le figure che meglio riuscirono a interpretare il nuovo corso della femminilità: ispirandosi allo stile cubista, raccontò una donna protagonista del nuovo secolo, disinibita e sessualmente libera (lei stessa, dal 1922, avviò una relazione saffica con la vicina di casa Ira Perrot che fu più volte sua modella), apparentabile alla Paprika Johnson di un racconto di Djuna Barnes, altro personaggio newyorkese sopra le righe.
Se la Grande Depressione americana, a partire dal ’29, attenuò non poco il ritmo vorticoso di quegli anni ruggenti, in Europa gli effetti furono meno marcati. Ma con il 1938 e il Patto di Monaco, l’atmosfera cambiò radicalmente anche nel Vecchio Continente; soltanto negli anni Sessanta, e la nascita degli Hippy e della Pop Art, si tentò di riprendere una linea di autentico pensiero artistico e libertario, tentativo che la logica di mercato troncò quasi sul nascere.
Ma ancora oggi resta, dell’Art Déco, il fascino contraddittorio di uno splendore nato per coprire vecchie macerie e che sarà a sua volta coperto da altre; resta il tentativo di creare una stabilità che mettesse al riparo dalle angosce della guerra, e che rendesse accettabile una modernità che si annunciava sempre meno controllabile.
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