Ghost in The Shell è uno dei film più discussi di recente. Forse non è così brutto come hanno detto, ma l’arte del compromesso a volte è vista come un peccato.
È arrivato anche nelle sale italiane, dopo una spasmodica attesa, il chiacchieratissimo live action di Ghost in The Shell, primo adattamento cinematografico dell’omonimo manga di Masamune Shirow (1989), da cui era già stato tratto un anime nel 1995, per la regia di Mamoru Oshii.
Il Maggiore Mira Killian (Scarlett Johansson) è un cyborg generato dalla Hanka Robotics ed è a capo di una squadra antiterrotismo. Nel futuro di Ghost in The Shell il terrorismo è quello cibernetico. Mira non ricorda nulla del proprio passato. È un’identità chiusa in un corpo robotico.
La pellicola di Rupert Sanders (Biancaneve e il Cacciatore), nonostante la prestazione poco brillante al Box Office (ad ora solo 49 milioni di dollari rispetto ai 110 spesi), non é poi così deludente.
Le polemiche sulla scelta della protagonista incentrate sulla controversia del whitewashing, per cui si affida a un attore il ruolo di un personaggio originario di un’altra etnia, non hanno facilitato la sua promozione.L’incipit del film è poco accattivante rispetto allo svolgimento della narrazione che risulta, al contrario, subito molto coinvolgente e scorrevole. Ottima, in apertura, la colonna sonora di Steve Aoki, che si fa subito notare nel sottofondo di un’introduzione un po’ banale sotto il punto di vista delle scene d’azione.
Il film recupera però credibilità man mano che la trama si articola.
Il manga originario presenta una tematica importante e moderna, che riflette una società in continuo conflitto tra la purezza dell’anima e la corsa frenetica verso scoperte scientifiche sempre più innovative.
Rupert Sanders non solo riesce a riportare in maniera chiara questo spunto di riflessione sul grande schermo -pur muovendosi su piani più superficiali rispetto all’originale- ma ne crea un quadro stilistico in grado di valorizzarne la visione.
Oltre alla colonna sonora, meritevole di essere shazammata, l’impianto visuale tecnologico e barocco al contempo, sorretto da effetti speciali estremamente curati, non lascia spazio all’immaginazione e trasporta lo spettatore all’interno di un mondo al contempo affascinante e repellente: una Hong Kong di un futuro ultra tecnologico che non è neanche troppo lontano dal nostro.
Un’ambientazione futurista quella ricostruita dal regista, ma anche molto attuale. I look cyberpunk, tra bomber, anfibi e black skinny, rispecchiano i maggiori influencer del panorama underground di questi ultimi anni (Fka Twigs, Brooke Candy).La giusta misura è il punto forte del film, tanto nella scelta stilistica, quanto nella sceneggiatura. La trama è lineare e scandita da dialoghi e aforismi filosofici. Resta in superficie e modifica il finale originale (il tradimento più significativo), ma restituisce un prodotto digeribile del pubblico più mainstrean.
La scelta dei personaggi secondari è forse quella più discutibile. Le interpretazioni di Michael Pitt e di Juliette Binoche (nei panni della dott.ssa Oulet) lasciano un po’ perplessi in confronti ai ruoli che li hanno resi attori cult. Tuttavia Robert Sanders se ne esce in maniera più che dignitosa con una pellicola che non delude le sue origini e ne omaggia in maniera pulita ed elegante la sua modernità.