“Come sono diventato Relittologo? 50 anni di navigazione, 50 anni di fotografia, la passione per le aree del globo dove sono i relitti (l’Atlantico meridionale), e il raggiungimento di un’età in cui il dovere di memoria diventa naturale”.
Stefano Benazzo, romano, 68 anni, ha lasciato nel 2012 una lunga e brillante carriera diplomatica ma, dotato di una vivace personalità poliedrica, continua fin da giovane a sviluppare l’arte della fotografia, della scultura e il modellismo. Così per la fotografia, ha viaggiato in lungo e in largo per le coste del mondo alla ricerca dei Relitti, testimoni fondanti della vita del mare. E, con la stessa ricerca metodologica degli esploratori, ha raccolto una galleria ricchissima di fotografie dove gli scheletri delle grandi navi si ergono come simulacri della memoria e delle tradizioni marinare. È stato presentato pochi giorni fa alla Libreria del Mare in via Broletto a Milano il volume fotografico Stefano Benazzo, Wrecks/Relitti, curato da Jean Blanchaert, con la collaborazione di Roberto Mutti, edito da Skira Photography (32,00 euro).
Le sue passioni personali spaziano dalla fotografia alla scultura fino al modellismo e sono lo specchio della sua personalità. Può raccontarle più in dettaglio?
Le mie fotografie e le mie sculture tendono all’essenziale: less is more; più invecchio più mi rendo conto di quanto sia importante togliere ed eliminare, sia dall’immagine che dalla materia; ma anche certe mie immagini scattate a vent’anni erano essenziali. Il modellismo, peraltro, è in contrasto con quanto appena detto: la ricerca della precisione e del dettaglio incontra solo un limite: diventare schiavi del proprio lavoro. Tuttavia il mio modellismo (chiese antiche in legno, automobili, moto, treni a vapore, ecc.) è sulla stessa direttrice della mia Relittologia per almeno un aspetto: il rispetto del passato. Come sono diventato Relittologo? 50 anni di navigazione, 50 anni di fotografia, la passione per le aree del globo dove sono i relitti (l’Atlantico meridionale) e il raggiungimento di un’età in cui il dovere di memoria diventa naturale: ecco la ricetta. Ma a una condizione: che i Relitti che fotografo mi diano emozione, che a mia volta devo trasmettere a chi osserva le mie immagini. Il mio obiettivo non è realizzare un’enciclopedia dei Relitti, ma solo fotografare quelli che hanno un’anima.
Le sue fonti d’ispirazione sono molteplici ma attengono molto alla natura e ai paesaggi e forse la sua attività diplomatica, le ha permesso di ampliare maggiormente la sua visione?
Nella mia carriera sono sempre stato in sedi continentali, dove il mare non era vicino. Non penso quindi che i paesaggi in cui ho vissuto nei decenni scorsi abbiano influito sulla mia visione. Piuttosto ho man mano eliminato il superfluo dalla parte della mia forma mentis applicata all’arte. E ho cercato i valori che ritengo importanti: il dovere di memoria è fra questi.
Può spiegare in sintesi il progetto fotografico Relitti?
I Relitti sono la congiunzione fra i sette decimi quasi del tutto ignoti del globo terracqueo e i tre decimi che riteniamo di conoscere abbastanza. Come tutti i punti di contatto sono delle scintille di criticità. Inoltre, i Relitti portano in sé la memoria del mare, cioè dei marinai, dei costruttori, dei migranti, degli emigranti. Esaltano il senso del lavoro di gruppo svolto da eroi quotidiani come sono i marinai. D’altro canto, i Relitti affascinano l’uomo e lo mettono a disagio; tutti hanno dei Cari Estinti, ma i Relitti non vengono mai presi in considerazione. Si salvaguardano i cantieri navali storici e gli squeri, non le navi arenate.
I suoi, sono Relitti scoperti lungo diverse coste del mondo. Come ci è arrivato?
Ho visitato la prima volta la Terra del Fuoco a vent’anni e l’ho amata. Ci sono tornato successivamente, anche a causa della mia passione per la navigazione a vela dal 1850 al 1940, che non poteva non passare dal Capo Horn. Quando i Relitti sono diventati per me importanti, ho scoperto che molti erano a quelle latitudini. Quanto alla Namibia e alla Mauritania, desideravo recarmici da sempre ma con un rimpianto: esserci stato con trent’anni di ritardo perché allora, i Relitti erano molto più numerosi. Per la ricerca dei Relitti invece, basta conoscere siti, luoghi, direttori di musei navali, marinai, ma anche chiunque abbia avuto occasione di vederne. Quante volte un visitatore a una mia mostra mi chiede se conosco il tale Relitto ed è lieto di fornirmi le informazioni necessarie per trovarlo…
Con le sue immagini vuole esprimere anche il dovere della memoria nei confronti delle future generazioni ?
Abbiamo il dovere di trasmettere le esperienze, le conoscenze e quanto accumulato nel tempo. E così diamo vita a chi non è più con noi. Il Libro egiziano dei Morti dice: “Ciò che è ricordato vive”. La testimonianza è essenziale: chi ascolta un testimone diventa a sua volta un testimone. Secondo una leggenda africana, un uomo muore veramente solo quando muore l’ultima persona ad averlo conosciuto e a mantenerne il ricordo. E la memoria di un uomo (cioè dei marinai, il caso che mi interessa ora) rimane viva finché se ne parla, o finché si osservano le immagini delle navi a cui avevano affidato vita e sogni. Perciò nel mio prossimo libro saranno i Relitti a parlare degli uomini a bordo, e non gli uomini a raccontare storie di navi.
Il suo libro fotografico induce senza dubbio anche a una riflessione sulla migrazione dei nostri giorni.
Certamente i relitti ci portano a riflettere sulle migrazioni. Alcuni dei “miei” Relitti erano navi che hanno portato in California i cercatori d’oro; altre portavano emigranti indiani verso il Sud Africa; altre ancora portavano i nostri emigranti nel continente americano. Infine, i barconi che ho fotografato a Lampedusa ci colpiscono come un pugno: l’assenza di uomini nelle immagini fa risaltare il simbolo di una delle grandi tragedie del nostro tempo, e il ruolo che svolgono gli italiani nel salvataggio dei migranti nel Mediterraneo.
Stefano Benazzo Wrecks / Relitti
a cura di Jean Blanchaert
SKIRA