The God-Trick è la mostra collettiva che celebra i 10 anni di apertura. Curata da Marco Scotini, l’esposizione invita a riflettere sulle problematiche ecologiche attraverso il linguaggio che da sempre si addice al PAV: l’Arte Vivente. Dal 5 maggio al 21 ottobre al Parco di Arte Vivente di Torino.
Vedi, in questi silenzi in cui le cose
s’abbandonano e sembrano vicine
a tradire il loro ultimo segreto,
talora ci si aspetta
di scoprire uno sbaglio di Natura,
il punto morto del mondo, l’anello che non tiene,
il filo da disbrogliare che finalmente ci metta
nel mezzo di una verità
(Eugenio Montale, I Limoni)
L’intero universo vuole essere toccato. Ogni foglia scivolata a terra, ogni goccia di pioggia che l’accarezza, ogni albero che se l’è lasciata scappare nascondono un’individualità unica. Dietro questa consapevolezza si cela la complessità dell’armonia naturale di cui anche l’uomo, nonostante i suoi tentativi di discostarsene, fa parte. Non è semplice introdursi nei meccanismi che regolano il mondo e ancora più difficile è individuare il proprio ruolo all’interno di questo fitto disegno. L’illusione di Montale in un attimo svanisce: il lucido sguardo si fa subito appannato, causa ed effetto si allontanano, il mistero che ci avvolge ritorna fitto nella nebbia sopraggiunta. Rimaniamo incantati come coperti da un velo leggero che ci confonde il pensiero, ci anestetizza. È il God-Trick di cui parla Donna Haraway, nota come la madre del pensiero Cyber femminista, e che da il titolo alla mostra, dal 5 maggio al 21 ottobre al PAV (Parco d’Arte Vivente) di Torino. Il “trucco di Dio” si fonda sull’illusione di poter eliminare il corpo dalla conoscenza. Un raggiro che vede la conoscenza distribuita dall’alto, da un’unica verità gridata sull’altare di un’oggettivizzazione imposta. L’invito dell’esposizione è quella di superare con scetticismo e spirito critico le barriere del senso comune, di riappropriarsi della propria individualità e restituire ad ogni aspetto del creato la sua singolarità. È su questa base che la mostra nasce e si muove verso l’analisi del concetto di Antroprocene.
Antropocene è il termine con il quale si definisce l’epoca geologica in cui viviamo. Un’epoca profondamente segnata dall’intervento umano, che attraverso modifiche strutturali, territoriali e climatiche sta rischiando seriamente di danneggiare irrimediabilmente il suo stesso ecosistema. È il suicidio di cui tutti, forse inconsapevolmente, forse stupidamente complici, siamo ogni giorno protagonisti. Il PAV, da ormai dieci anni al centro di un movimento in grado di evidenziare la minaccia ecologica e di proporre soluzioni grazie al linguaggio artistico, si fa portavoce di quell’ondata di sensibilizzazione e presa di conoscenza necessaria alla nostra sopravvivenza. Lo fa richiamando a sé 6 artisti che già hanno collaborato con il Parco e ponendoli al centro di una grande mostra corale curata da Marco Scotini. Come da tradizione del PAV, le opere in mostra sono tutte riconducibili alla cosiddetta Arte Vivente (come preferisce definirla Piero Gilardi, artista e fondatore dell’istituzione), poi declinata in vari movimenti come la Bioart o la Land Art e più in generale qualsiasi forma d’arte che utilizzi elementi naturali come medium per la propria indagine. La sede espositiva divisa in indoor e outdoor consente alla struttura di offrire agli artisti possibilità allestitive uniche in Italia. Nella cornice arborea del polmone verde di Torino, le opere dialogano con il visitatore e con lo spazio circostante, andando ad arricchire un luogo già suggestivo.
Così su una collina, che coraggiosa tenta di imporsi sullo sfondo dominato dal grigio pallido degli edifici, emergono verticali un centinaio di scope di saggina. Quasi un tempio di muti bastoni sembra delinearsi tra la sorpresa di scoprire uno strumento di uso comune elevato ad opera d’arte prendere letteralmente vita. L’artista francese Michel Blazy nell’atto di fissare le scope al suolo ha infatti volontariamente omesso di eliminare i semi dalla saggina. Questa muove allora un simbolico atto di ribellione nei confronti del presunto dominio dell’uomo e si riappropria della sua natura di pianta. Si libera in modo lento e inesorabile dal trattamento umano ricevuto ed allunga i propri germogli come braccia tese verso la terra. Ricucito lo strappo a cui la sua appropriazione coatta aveva sottoposto la saggina, la pianta si muove libera di crescer senza limiti di spazio, modalità e tempo. La natura è ancora in grado di stupirci, basta non fermarsi alle definizioni date e trovare la via affinché possa esprimersi.
Dinamiche fisiche e metafisiche per generare energia alternativa sono al centro dell’attività di Nomeda e Gediminas Urbonas. La loro Folk Stone Power Plant è concepito come uno strumento in grado di connettere tra loro un team di scienziati con la roccia e il lampione situati vicino alla Town Hall di Folkstone (UK). Il lampione, funzionante di giorno e spento la notte, è il paradossale emblema dello spreco e dell’inefficienza energetica del sistema che abbiamo generato. Le dimensioni della roccia, ispirata agli scritti del padre della biogeografia e della geomagnetica Alexander Von Humboldt (1769-1859), rimandano al volume di combustibili fossili necessari ad alimentare il lampione per tutta la durata della mostra – organizzata nel 2017, la cui storia rivive ora attraverso le immagini raccontate al PAV. Ma in questo caso, il motore energetico è composto da materia vivente. Il lampione viene disconnesso dalla rete elettrica e collegato Folk Stone Power Plant. Lo strumento, messo a punto da un team di scienziati internazionali, sfrutta una serie di innovativi batteri organici estratti dai funghi e dal fango. Il Geobatterio risulta soprendentemente in grado di alimentare la batteria del lampione ed illuminare la piazza, sfruttando l’ossido di ferro che abbonda nei terreni e nei sedimenti. Le sperimentazioni hanno portato a delineare le potenzialità dei funghi come alternativa alla grafite presente nelle classiche batterie. Oltre ad offrire prestazioni maggiori, queste sono anche in grado di garantire maggiori cicli di riutilizzo. La storia e le immagini
Sbigottiti dalle imponderabili potenzialità della natura non è raro sentirsi confusi, tesi fra la società che si dirige senza freni verso l’autodistruzione e il desiderio flebile ma sempre pulsante di invertire la rotta. Possiamo muoverci dentro questo spaesamento, camminarci al fianco, perderci e ritrovarci in esso grazie a Labirintico Antropocene. L’installazione ambientale e multimediale è fisica metafora del dedalo di immagini, informazioni, stimoli contraddittori e manipolatori che i media di massa trasmettono quotidianamente. Il labirinto erboso ideato da Piero Gilardi, accompagnato da pannelli informativi e da un’opera video, stimola con fresca lucidità e limpido impatto emotivo la riflessione sulla necessità di ristabilire l’equilibrio complessivo del sistema ambientale e geologico terrestre. Liberi dalla sudditanza a un impianto informativo schiavo di quel capitalismo padre dell’Antroprocene (tanto che alcuni studiosi preferiscono chiamarla Capitalocene), possiamo guardare con fiducia e speranza ad un futuro di cui ci dobbiamo necessariamente riappropriare. Ma come fare? Da dove partire?
Scrollarsi di dosso le comodità, individuare i principali problemi e cercare da subito di risolverli, anche a costo di dover fare dei sacrifici. In ambito ospedaliero si adotta spesso la tecnica del triage. Si tratta di un metodo utile a selezionare e gestire le vittime di infortuni secondo il grado di urgenza, in modo da stabilire a chi dedicare la priorità per le cure. I sistema, che in caso di guerra diventa risolutamente pratico, se non cinico, è applicabile tanto all’uomo quanto all’ambiente. Date le nostre risorse limitate, dove destinare i nostri sforzi? Quali ecosistemi salvare per primi? Quali scelte ecologiche apportare? Siamo in stato di guerra, guerra contro un processo di distruzione del nostro ambiente che ogni giorno compie un passo ulteriore verso l’irreversibilità. Per ottenere un risultato, bisogna fare scelte difficili. Come quella che il collettivo artistico Critical Art Ensemble sottopone al visitatore con l’installazione Environmental Triage: An Experiment in Democracy and Necropoliics. Tramite una pepita di vetro, ogni visitatore è tenuto a votare quale dei quattro campioni d’acqua, estratti da corsi d’acqua nei pressi di Torino e raccolti in piccole vasche, merita di essere salvato per primo. Nella scelta, dobbiamo tenere presente il conflitto in atto. In tempo di guerra, date le risorse limitate, il triage suggerisce di classificare gli infortunati per livello di gravità e prestare le prime cure a chi ha più possibilità di sopravvivere. Questo genera una tremenda ma necessaria rinuncia: il sacrificio di chi è già compromesso.
Questo, forse più di ogni altra cosa, dà la misura del dramma che stiamo vivendo e ci invita a fare di più che scegliere dove posizionare una semplice pepita di vetro. Anche se l’immagine, che dentro di essa si riflette, sembra enormemente più grande di noi.
Una serie di incontri e dibattiti accompagneranno la mostra. Per ulteriori informazioni il sito ufficiale del Parco.