Quattordici ritratti, stampe erotiche, manoscritti e volumi a stampa, illustrano la figura di un intellettuale sui generis, che alternò gli studi umanistici a quelli sull’erotismo. Bad-boy Adrian Beverland, curata da Joyce Zelen, è la mostra di studio che riporta alla luce una controversa figura del tardo Umanesimo olandese. Al Rijksmuseum di Amsterdam, fino al 17 settembre 2018. www.rijksmuseum.nl
Amsterdam. L’Olanda calvinista e luterana del XVII secolo respirava un clima di libertà civile impensabile in quella parte d’Europa, Italia compresa, che si trovava sotto l’influenza della Controriforma, e anche se quella medesima libertà era improntata ad austerità e rigorismo, certamente non doveva temere il rogo e l’Inquisizione. Per questa ragione, il filosofo e giurista Adrian Beverland (Middelburg, 1650 – Londra, 1716) poté dar libero sfogo alla sua passione per l’erotismo che forse, in retrospettiva, rasentava la mania. Probabilmente anche per questa ragione, la sua fu una personalità inquieta e curiosa, non priva però di una profonda cultura umanistica unita a una certa vena polemica che lo pone fra i diretti precursori di De Sade e Saint-Just, così come di Leautaud e La Rochelle. All’epoca, le città olandesi si distinguevano in Europa per la loro vivacità commerciale e industriale, e per la diffusa cultura che vi si poteva incontrare: a Leida – sede del più antico ateneo del Paese -, Beverland frequentò la facoltà di giurisprudenza, trovando anche il tempo per trascorrere alcuni mesi a Oxford, nel 1672.
Rientrato in patria, ancora studente, pubblicò un trattato sul peccato originale, sotto le cui spoglie accademiche si nasconde però il libello polemico e mordace: scopo dell’opera, era infatti dimostrare come il peccato di Adamo consistesse semplicemente nel rapporto intimo con Eva, e quindi il peccato originale non è altro che l’inclinazione dei sessi l’uno verso l’altro. Per queste pagine a dir poco originali, fu convocato dai vertici dell’università che, per quanto liberali, non potevano permettersi attriti con la municipalità calvinista, il cui puritanesimo non ammetteva deroghe; Beverland fu espulso e condannato ad alcuni giorni di prigione, ma la condanna e l’espulsione furono revocate dopo l’impegno dell’autore a pagare una forte multa e a rinnegare la sua tesi. Riuscì pertanto a conseguire la laurea in giurisprudenza e divenne avvocato; ma la sua passione per la letteratura classica lo distolse da una sicura carriera: era infatti un ammiratore appassionato di Ovidio, Catullo, Petronio, e sembra aver tratto da loro quella corruzione della morale che, in misure diverse, apparve in tutta la sua vita e nei suoi scritti.
La censura del suo libello ferì non poco il suo orgoglio, e lo portò ad assumere comportamenti definiti offensivi dalla municipalità, la cui magistratura lo bandì da Leida; per questa ragione scrisse un nuovo libello ferocemente satirico contro i magistrati e i ministri di Leida, dal titolo di Vox clamantis in deserto, e nel 1679 riparò in Inghilterra, dove trovò rifugio e impiego presso il suo connazionale Isacco Vossius (1618-1689), che lo assunse come segretario e gli procurò una pensione di corte. Vossius fu un intellettuale e bibliofilo, appassionati di manoscritti dei quali formò una delle più vaste collezioni personali d’Europa; con Beverland, ebbe profonda amicizia, dovuta anche alla curiosità con cui guardava i suoi libelli, ma anche ammirava il bizzarro modo che aveva d’impiegare il suo talento umanistico.
Libero da problemi economici, Beverland visse i suoi anni inglesi circondandosi di ogni sorta di agi, ma soprattutto sfogò la sua passione per l’erotismo frammischiato all’occulto, e formò ben presto una collezione di racconti licenziosi, stampe erotiche, monili e medaglie con simboli esoterici, acquistate in giro per l’Inghilterra. Ma qualcosa nella sua mente si oscurò a un tratto; dopo la morte di Vossius perse la pensione di corte, e ciò lo costrinse a ridurre considerevolmente lo sfarzo del suo tenore di vita, speso fra manoscritti e ricerche sull’eros, sia pratiche sia teoriche. Una vita che però dové lasciargli qualche rimorso, poiché nel 1689 aveva scritto De fornicatione cavenda: admonitio sive ad hortatio ad pudicitiam et castitatem, dove affermava di essersi pentito della sua precedente dissolutezza, chiedendo nella prefazione, a chiunque avesse un manoscritto dei suoi lavori precedenti “di restituirlo a me, perché io possa bruciarlo da solo”.
Smarrito e povero, trascorse gli ultimi anni vagando per l’Inghilterra, temendo di essere assassinato per vendetta, a causa delle molte satire contro illustri personaggi di corte che aveva scritte in passato. Scomparve attorno al 1710, l’ultimo anno del quale si hanno sue notizie certe, e avvolto da una cortine di mistero, calò il sipario su un uomo ancora oggi poco conosciuto, che fu un raffinato intellettuale (alternò infatti, in Olanda e in Inghilterra, l’attività accademica come docente, a quella di umanista e traduttore dei classici, e tradusse in olandese il De rerum natura di Lucrezio), ma anche un misterioso bohémien ante litteram, che forse per reale interesse, forse per patologia, superò le barriere di pudicizia che circondavano l’eros, e ne fece oggetto di ragionamento, anche se in maniera provocatoria. Senza scomodarsi nello scendere a Roma come molti suoi connazionali avevano fatto, Beverland riproduce ad Amsterdam i costumi licenziosi dei Bentvueghels, che fra una partita ai dadi e un incontro con una cortigiana, raccontarono la Roma barocca e popolare, sulle orme stilistiche del loro “idolo” Caravaggio. Beverland non fu però pittore, bensì, nella tradizione umanistica, si limitò all’incisione, alla stesura di immagini dall’afflato narrativo e filosofico, sulla scorta, ad esempio, di Albrecht Dürer. Ma le considerazioni sono però interamente dedicate alla sfera sessuale, che sviscera con grazia e ragionamento, con l’obiettivo, mai però raggiunto, di pubblicare una un’enciclopedia dell’erotismo nel mondo antico intitolata De Prostibulis Veterum, per dimostrare come il sesso sia da sempre appartenuto al sentire dell’umanità, e qualsiasi moralismo risulti pertanto costrittivo e innaturale.
Una posizione ardita per i tempi, che però non cosò la vita al suo assertore, solo per il relativo clima di tolleranza che caratterizzava l’Europa riformata rispetto a quella cattolica, dove Beverland sarebbe quasi sicuramente finito in carcere o al rogo.
Una mostra piccola ma interessante che indaga questo misterioso proto-dandy, che al rigore dell’umanesimo affiancò la licenziosità del piacere erotico, cercando una convincente tesi per far sì che, una volta per tutte, la libertà sessuale si affermasse anche nei ceti più bassi della popolazione. Una “missione” condotta in maniera discontinua, ma animata da quello zelo libertario che la Riforma Luterana aveva reso possibile in Europa, e che ne accompagnerà il progresso civile nei secoli successivi.