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Alla scoperta dell’editoria indipendente: 4 chiacchiere con Giorgio Pozzi di Fernandel

Nell’immaginario nazionalpopolare Fernandel è il volto cinematografico di Don Camillo, il prete reazionario nato dalla penna di Giovannino Guareschi. Ma per molti lettori appassionati, è anche un marchio editoriale di culto, fondato a Ravenna nel 1997 da Giorgio Pozzi. A dire il vero tutto comincia qualche anno prima, precisamente nel 1994, quando Pozzi con alcuni amici decide di dar vita a una rivista letteraria intitolata appunto Fernandel.

Giorgio Pozzi
Giorgio Pozzi


Come nacque l’idea della rivista?
Eravamo un gruppo di persone curiose, interessate a sapere cosa c’era nei cassetti degli altri. Leggevamo racconti inediti e pubblicavamo quelli più meritevoli. Ambivamo a porci come mezzo di confronto e scambio per le diverse esperienze di scrittura, cercando di superare l’isolamento che all’epoca caratterizzava gli esordienti. Per prendere le distanze dal mondo accademico, optammo per un nome spiazzante, capace di evocare un’immagine paterna e bonaria, vagamente surreale rispetto al contesto. Dopo un paio d’anni, la rivista entrò nel circuito delle librerie Feltrinelli e cominciò ad avere un discreto numero di abbonati in tutta Italia.

Che cosa la portò a fare il grande passo, iniziando a pubblicare anche libri?
Spesso ci capitava di ricevere dei testi troppo lunghi che, per quanto meritevoli, non potevano trovare la giusta collocazione all’interno della rivista. Così iniziai a pensare a uno strumento alternativo che mi permettesse di diffondere le storie che leggevo. La scelta della forma libraria mi sembrò la più naturale. La casa editrice è nata dal basso, per così dire, senza una vera e propria strategia o pianificazione editoriale. Trovai un contatto con un distributore locale che mi assicurò la copertura delle principali regioni settentrionali e, nel novembre 1997, diedi alla stampa i primi volumi.

Cos’è cambiato da quel momento?
Da quel momento non si è più scherzato. Pubblicare libri voleva dire entrare in un altro ordine di grandezza e avere molte più responsabilità, a partire dalla regolarità delle uscite, imposte dalla distribuzione. Oggi, a più di vent’anni dall’inizio del progetto, siamo ancora in piedi. Molte sfide sono cambiate, ma molte restano le stesse, portate avanti con uguale determinazione e spirito di ricerca.

E la rivista Fernandel?
Non ha mai smesso di essere pubblicata. Fino al 2001 è uscita a cadenza bimestrale, poi è diventata un trimestrale. Nel 2007 è passata ad una dimensione esclusivamente online e oggi si può scaricare gratuitamente sul sito www.fernandel.it Tra i collaboratori – molti fissi – ricordo Antonio Moresco, autore per tre anni della rubrica “Le prove”, ma anche Antonio Pascale con lo spazio “L’Italia che cambia” ed Elio Paoloni che firmava la sezione “Recensiamo i recensori”.

Ieri come oggi, qual è il suo principale obiettivo?
Promuovere una narrativa che parta dall’esperienza individuale per parlare della dimensione collettiva. Al centro c’è il singolo, che racconta il mondo in cui viviamo, affronta i cambiamenti della società e dei costumi. Pubblichiamo testi legati al presente, non ci interessano i romanzi storici o i libri di genere, anche se poi ci sono le dovute eccezioni. Penso ad esempio a “Processo a Rolandina” di Marco Salvador, che è ambientato nella Venezia del XIV secolo. È la storia vera di una donna intrappolata in un corpo di uomo – oggi si direbbe transgender – che si prostituisce per sbarcare il lunario, quando viene scoperta è condannata al rogo.


Che fisionomia hanno i lettori Fernandel?
Nel tempo il nostro target di riferimento si è un po’ modificato. Negli anni Novanta-Duemila abbiamo pubblicato molti esordienti che poi sono diventati scrittori di successo, come Gianluca Morozzi, Paolo Nori, Grazia Verasani, Piersandro Pallavicini, Michela Tilli. Questo ha portato su di noi una certa attenzione da parte degli aspiranti scrittori. Siamo quindi stati connotati come una casa editrice “giovanilista”. Agli inizi il nostro pubblico medio aveva intorno ai 20-25 anni, invece oggi la fascia è molto più ampia. I nostri lettori sono curiosi, ci vengono a cercare, ci seguono con costanza.

La propensione allo scouting è ancora una vostra cifra distintiva?
Certamente sì. Scoprire giovani scritture e talenti, con particolare attenzione ai temi giovanili resta alla base del nostro lavoro, anche se col passare del tempo ci siamo aperti anche ad altre forme di comunicazione. La collana principale – che non ha nome, se non quello della casa editrice stessa – rimane il focus principale, ma abbiamo dato vita a nuove collane come “Illustorie” e “Vite dei Santi”. La prima si propone di raccontare il presente attraverso la grafica e le illustrazioni; la seconda tematizza le esperienze di personaggi dello spettacolo, della cultura e dell’arte che hanno dimostrato una particolare coerenza verso la propria professione e prima ancora verso se stessi, diventando un esempio per tutti.

Come si accorge di trovarsi di fronte a un testo dal grande potenziale, a un esordiente meritevole?
In redazione arrivano circa mille manoscritti l’anno. Ovviamente non c’è una ricetta per scoprire nuovi talenti, ma quando leggo per me è fondamentale trovare un punto di vista diverso, interessante per offrire al lettore dei libri ben scritti, dalla trama avvincente, piacevoli da leggere e non convenzionali.

C’è un autore che ha esordito con Fernandel e poi magari è passato ad altri editori a cui è rimasto particolarmente legato?
Sicuramente Gianluca Morozzi, che è un amico oltre che uno scrittore di talento. Ma il suo caso è diverso da tutti gli altri: lui non se n’è mai andato veramente. È vero che ha pubblicato anche con altri, come ad esempio Guanda che l’ha portato alla ribalta con il romanzo “Blackout” nel 2004, ma continua a far parte della nostra scuderia.

Fernandel ha sede a Ravenna. Non ha mai pensato di spostarsi in una delle capitali dell’editoria italiana, come Milano o Roma?
Ravenna è sicuramente all’estrema periferia del mondo editoriale. Probabilmente Roma o Milano mi avvantaggerebbero dal punta di vista relazionale, permettendomi di sviluppare rapporti più diretti con distributori, librerie e operatori di settore. Ma non credo riuscirei a staccarmi dalla dimensione ravennate dove sono nato e cresciuto. E poi oggi, con i mass media, siamo tutti molto più vicini e le distanze fisiche vengono meno.

Qual è la difficoltà maggiore, o anzi la sfida più difficile, per un piccolo editore indipendente nel 2018?
Senza dubbio la distribuzione, che è il vero punto dolente del comparto. Il mercato si fonda sugli stessi principi di cinquant’anni fa: un meccanismo elefantiaco che fa acqua sotto molti punti e in cui tutti aumentano la percentuale di sconto. Il risultato è una terribile cannibalizzazione dei grandi editori a discapito dei piccoli, volta a cercare di guadagnare qualche quota di mercato.

Fernandel partecipa alle fiere del libro?
Assolutamente sì. Si tratta di esperienze molto formative per noi editori: permettono di incontrare in faccia i lettori, ricevere un feedback sulla propria offerta editoriale. Il dialogo con il pubblico ti aiuta a renderti conto del risultato e di identificare meglio il tuo target di riferimento. In passato le fiere erano anche l’occasione per recuperare vecchie uscite e volumi difficili da trovare, ma oggi la vendita online ti offre gli strumenti per acquistare il catalogo completo.

A proposito, quali libri Fernandel ci consiglia di leggere questa estate?
Considerando il pubblico di riferimento di ArtsLife.com, mi vengono in mente in particolare due autori: Pablo Echaurren e Stefano Bonazzi. Il primo è un artista e fumettista italiano, figlio del pittore e architetto cileno Roberto Matta. Come romanziere ha all’attivo alcuni volumi che hanno per protagonista una commissaria chiamata a fare luce su alcuni casi nel mondo dell’arte contemporanea. Tra le sue opere più apprezzate, c’è anche il libro “Chiamatemi Pablo Ramone”, omaggio senza riserve né pudori al gruppo newyorkese che ha fatto la storia della musica rock. La sua scrittura pirotecnica è intervallata da foto e illustrazioni realizzate dallo stesso Echaurren, così fortemente ispirato dalla loro produzione da auto-ribattezzarsi appunto “Pablo Ramone”. Il libro è una riflessione originale sulle connessioni tra alto e basso, arte popolare e cultura d’avanguardia.

 

E Stefano Bonazzi?
Classe 1983, ferrarese, lui stesso di definisce un “writer and digital photo manipulation artist”. Le sue foto sono state esposte in Europa, Asia e America. Per Fernandel nel 2017 è uscito “L’abbandonatrice”, un libro di grande intensità che tratta temi forti come il suicidio, gli attacchi di panico, la droga e il disagio adolescenziale. È un romanzo sulle responsabilità che ogni nostra scelta comporta e sulla difficoltà ad accettarne le conseguenze, indipendentemente dalla nostra età e dalla nostra posizione sociale.

 

Ci suggerisce anche un libro di Gianluca Morozzi, vostro autore di punta?
L’ultimo uscito per Fernandel si intitola “L’ape regina”. È un romanzo esilarante, in perfetto stile Morozzi, che ha per protagonista il sedicenne Lucas Bentivoglio. Il ragazzo acquisisce i poteri del suo supereroe, l’Uomo Fuco, che gli consentiranno di svolazzare emettendo un ronzio. Ma c’è un nemico da combattere, l’ape regina, appunto, che ha intenzioni tutt’altro che buone nei suoi confronti…

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