A duecento anni dalla stesura dell’Infinito, capolavoro immortale della poetica leopardiana, Recanati ne celebra la memoria attraverso il progetto “Infinito Leopardi”, articolato in tre mostre.
Dai manoscritti originali del Poeta ai ritratti della famiglia Leopardi, fino alle fotografie di Mario Giacomelli nei luoghi e nel pensiero del poeta. Una mostra prodotta da SistemaMuseo, visitabile a Villa Colloredo Mels fino al 19 maggio 2019.
Due secoli fa, un giovanissimo Giacomo Leopardi componeva una delle più belle e intense poesie dell’epoca moderna, quell’Infinito la cui profondità e modernità non smettono di affascinare, di far pensare, di donare all’anima un momento di bellezza. Leopardi, poeta e filosofo del dolore, ma anche fiero assertore del potenziale dell’umanità in lotta contro la natura, affronta l’immensità con stoico coraggio.
Quelle parole possono adesso essere ammirate in originale, grazie all’esposizione del manoscritto nella versione del 1819, proveniente, assieme ad altri manoscritti, dalla collezione del Comune di Visso, e fortunosamente salvati dai danni del terremoto del 2016, che ha distrutta la cittadina marchigiana. Già appartenenti alla collezione di Prospero Viani, dal 1869 sono proprietà comunale. Desta ovviamente emozione l’ammirare quelle “sudate carte” su cui Leopardi ha vergato le parole del suo genio poetico, affidando loro la sua sofferenza interiore.
Ma il poeta non fu soltanto questo: tanta cattiva e approssimativa storiografia letteraria ha identificato in lui una personalità votata al pessimismo, alla tetraggine al rifiuto della vita. Studi più accurati, e comunque improntati a una diversa sensibilità, hanno smentito quanto sopra. Ma in tal senso, già sono sufficienti alcune “prove” lasciateci dallo stesso Leopardi, il cui senso dell’umorismo sapeva manifestarsi accompagnato da un raffinato stile letterario.
Quei Sonetti in persona di Ser Pecora Fiorentino, Beccaio, risalenti al 1817, ci svelano un Leopardi ai più insospettato, a metà fra Sacchetti e Boccaccio. Ma il recanatese fu anche un valente letterato e filologo, e preziosi restano i suoi commenti di tanti autori ormai classici, fra questi Francesco Petrarca, da lui molto apprezzato. E proprio all’autore del Canzoniere è dedicato uno degli ultimi scritti di Leopardi, nel marzo del 1837, ovvero la prefazione e le correzioni a un commento di alcuni anni prima sulle Rime. Un documento importante anche per capire la relazione fra i due poeti; interpretando Petrarca, Leopardi trae anche ispirazione per costruire il suo linguaggio poetico, o ricorre all’“autorità” petrarchesca per giustificare espressioni, immagini e vocaboli inconsueti. Non ultimo, apprezzava nel tosco-avignonese una certa speculazione sulla malinconia dell’esistenza.
A caratterizzare maggiormente la mostra, a suggerire ai visitatori l’ambiente della famiglia del poeta, i ritratti dei genitori e dei fratelli, oltre al suo, ad alcuni suoi busti, e alla maschera funeraria. Volti che ancora oggi ci parlano: quelli complici dei fratelli Carlo, Pierfrancesco e Paolina, quello severo della madre Adelaide Antici, quello ambiguo del padre Monaldo, che da “codino” conservatore era capace di trasformarsi in intellettuale illuminato, e che con il figlio ebbe sempre un controverso rapporto di protezione e oppressione. La famiglia fu per Giacomo un forte condizionamento, ma anche un sostegno morale (soprattutto grazie ai fratelli), e riprodurla in effige contribuisce a ricreare l’ambiente affettivo e psicologico in cui crebbe il poeta, e a calarne la vicenda in una dimensione più intima.
Profondo è stato anche il legame di Leopardi con il territorio, con quel “natio borgo selvaggio” che seppur causa per lui di sofferenza, ha anche fornito personaggi e scorci alla sua poesia. Il fotografo Mario Giacomelli (1925-2000) ha intrapreso un autentico viaggio leopardiano sulla scia del tempo, alla ricerca dell’essenza del pensiero del poeta sulla crudeltà dell’esistenza, ma anche sulla capacità umana di combatterla attraverso le “care illusioni” dell’immaginazione. Scatti a loro modo leopardiani, interpreti di un modus operandi speculativo improntato a un realismo stoico, temperato però dalla dolcezza dell’illusione, appunto.
La serie fotografica A Silvia, dall’omonimo componimento, si sviluppa su due capitoli, il primo del 1964, il secondo del 1988; circa 60 scatti, fedeli traduzioni per immagini dei versi di Leopardi, dal suggestivo bianco e nero cinematografico, che indagano la vicenda dell’immaginaria Silvia, segnata dalla morte prematura. Non casualmente, nella prosecuzione della serie, nel 1988, il fotografo riutilizzò i medesimi ritratti del 1964, a simboleggiare l’eterna giovinezza della ragazza, scomparsa ancora giovane e in queste vesti consegnata da Leopardi all’immaginario universale, in contrasto con un paesaggio che con la ragazza non ha ormai più legami. Alla bellezza della poesia, Giacomelli aggiunge quella della fotografia, manipolando le immagini con una sapiente postproduzione volta a ottenere effetti luminosi assai particolari. L’omaggio a Leopardi prosegue con la serie L’Infinito (1986-88), poetico reportage del paesaggio marchigiano che, associato ai versi leopardiani, subisce una “distorsione” visiva, dilatato allo stesso modo in cui si dilata il pensiero che supera la siepe sul monte Tabor. Giacomelli estende la sua indagine fotografica anche ad altri componimenti leopardiani, inserendo riferimenti anche a Il sabato del villaggio, Alla luna, al Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, fra i più belli e commoventi componimenti inseriti nei Canti.
I suoi scatti alla ricerca dell’anima di Leopardi e dei luoghi leopardiani, completano questo percorso espositivo che racconta il poeta attraverso il suo pensiero e il suo ambiente: una mostra letteraria, ma anche di documentazione storica e familiare, che raggiunge il suo apice se abbinata a una visita alla biblioteca di Casa Leopardi, dove Giacomo si formò sotto lo sguardo del padre. Un tempo passato che è però ancora presente, considerando l’attualità delle riflessioni di Leopardi, poeta allora non del dolore ma del riscatto dell’umanità davanti alle avversità di un fato contro il quale è nobile ardirsi a sollevare lo sguardo mortale,sfida dell’ingegno all’arbitrio di una casualità che tutto vorrebbe volgere in polvere.
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