Amarcord 25 – Un nuovo appuntamento con la rubrica di Incontri, Ricordi, Euforie, Melanconie di Giancarlo Politi
L’East Village è uno dei quartieri più popolari di Manhattan, vicino a Broadway, nella parte meridionale dell’isola, dunque raggiungibile con una gradevole passeggiata dal cuore della grande mela. Alla fine degli anni ’70, l’East Village, parte dell’allora malfamata Lower East Side, era una zona vivace e multicolore ma depressa, caratterizzata da sporcizia, buche nelle strade (proprio come alcune città italiane oggi), auto abbandonate, con servizi pubblici molto carenti e con solo qualche autobus sgangherato in circolazione. La crisi economica degli anni ’70 aveva fatto fuggire molti artigiani e piccole ditte, lasciando uffici, appartamenti, seminterrati deserti e facendo crollare i prezzi degli immobili. Gli artisti, a New York, ma credo ovunque, hanno sempre avuto le antenne nell’individuare le nuove aree di sopravvivenza che poi diventano aree speculative (dove si concentrano i poveri c’è sempre spazio per gli squali), acquistando o affittando, a prezzi di saldo, studi e abitazioni, magazzini e bassifondi. Da parte dei gruppi immobiliari a New York c’è sempre stata una particolare attenzione al flusso degli artisti, perché loro individuavano i quartieri più malmessi per contribuire poi a farli risorgere. Così era stato per SoHo, da quartiere degli autotrasporatori e dei depositi di merci a raffinato quartiere dell’arte e poi della moda.
Così è avvenuto più tardi per Chelsea e poco prima con l’East Village, che diventò ben presto un quartiere di artisti, poeti, scrittori, attori, musicisti, fotografi e cantanti. E come sempre attentamente monitarato dagli speculatori immobiliari, i cosiddetti Lupi di Wall Street. E quello è anche il momento della nascita del movimento musicale No Wave (di estrazione punk e in cui tutto era permesso e accettato), e la cui musica e le parole erano incentrate sul rifiuto della cultura dominante, in opposizione al precedente New Wave, legato invece alle grandi case discografiche. E questa cultura del rifiuto influenzò anche il teatro, il cinema, l’arte, la letteratura, ecc. dando sfogo ad una creatività libera ed esplosiva, anche se a volte semplicemente amatoriale. Ma che gioia vivere quell’atmosfera frizzante dove a tutti era permesso tutto, dove i dilettanti e i pittori della domenica si scatenavano insieme ai grandi artisti, che hanno iniziato proprio all’East Village, come Jeff Koons, Peter Halley, Sherrie Levine, Ashley Bickerton, Haim Steinbach, nella mitica galleria International With Monument, la loro carriera. Ma tutti si ritrovavano a fraternizzare insieme nei ristoranti, nelle piccole gallerie o nelle vie chiassose o nei frequenti talk show in location improvvisate.
Veronica Ciccone detta Madonna
Luoghi preferiti di incontri e di discussioni accese erano il Mudd Club o il bar 315 a Bowery, non lontano dallo studio di Vito Acconci, che da sempre aveva abitato quel quartiere dismesso e disastrato, ma da lui individuato già nei primi anni ’60 e dunque pagato nulla (anche se la sua casa era ampia e accogliente, in cima a una faticosissima scala che ti faceva venire il fiatone). Ma ogni volta che io e Helena ci recavamo a casa sua, in genere per cena, dunque di notte, avevamo il batticuore, poiché la via era il ritrovo di spacciatori molto aggressivi, e caratterizzata da cassonetti svuotati e da decine di senza tetto che dormivano dentro scatoloni sul marciapiede. Non era proprio un posto allegro né da passeggiate romantiche, che all’epoca erano naturali per noi, nè per serate con gli amici. E noi non avevamo il coraggio un po’ irresponsabile anche se ammirevole di Francesca Alinovi che invece frequentava quei luoghi e altri maggiormente degradati e pericolosi, con grande naturalezza e sicurezza, trovando innocui e anche divertenti gli spacciatori aggressivi di cui diventava amica, i mendicanti e gli homeless che ti sbarravano la strada chiedendoti un quarter (25 centesimi). In questa atmosfera culturale stava muovendo i primi passi anche Veronica Ciccone, alias Madonna, appena arrivata da Pontiac, nel Michigan, dove malgrado i brillanti successi scolastici (sempre prima della classe e in tutti gli sport), con grande disappunto del padre benestante, ottenuta una borsa di studio, lascia il Michigan per recarsi a New York (mica stupida la ragazza!). Per poter studiare danza con il famoso coreografo Alvin Ailey. Ma New York non era come la nativa Pontiac, dove si viveva veramente con poco e senza pericoli: con la sua borsa di studio New York era veramente proibitiva e per questo scelse il quartiere più degradato ed economico della città, stabilendosi in un bilocale malmesso, con grandi finestre sulla strada, dell’East Village, integrando la modesta borsa di studio con i primi guadagni come modella per gli studenti di pittura e per qualche fotografo alle prime armi, oppure posando per Playboy e Penthouse. Così Madonna, tra una mostra di grafitisti (era diventata amica di Jean Michel Basquiat e di Andy Warhol) e un drink al Bar 315, cercava di sbarcare il lunario e nel suo bilocale malmesso e poco illuminato, dove dalla strada spesso vedevamo questa ragazza bruna, che io credevo fosse un’italiana, sgambettare serissima con l’aiuto di un giradischi stonato: eppure proprio qui, nel cuore dell’East Village, accanto alla sua scuola di danza e non lontana dalla sua abitazione, una sera venne aggredita e stuprata da alcuni giovani in cerca di esperienze hard. Lo schock fu violentissimo ma altrettanta fu la rabbia, la reazione e la determinazione di Madonna a voler continuare. Anzi, credo che quella brutale esperienza abbia contribuito a rafforzare il carattere di Veronica Ciccone. In quel periodo partecipò anche al film L’oggetto del desiderio, un thriller erotico di Stephen Jon Lewicki, che però incredibilmente gli fruttò solo 100 dollari, malgrado fosse la protagonista. Questo episodio indica il livello di povertà e di degrado di quel quartiere in quegli anni. Il film esce alcuni anni dopo, nel 1985, sulla scia della pellicola di successo Like a Virgin, malgrado Madonna abbia tentato in tutti i modi di bloccarne l’uscita. E fu proprio una collega e amica di Madonna, Patti Astor, una giovane attrice considerata la regina dell’underground newyorchese ad animare per prima l’East Village, aprendovi la sua galleria, la Fun Gallery.
Patti Astor, regina dell’underground e la Fun Gallery
Patti Astor era una coetanea di Madonna, altrettanto energica ma politicamente più impegnata. Nata e cresciuta a Cincinnati, all’età di 18 anni, nel 1968, si trasferì a New York, diventando la leader politica contro la guerra in Vietnam. Patti, donna simpaticissima, di grande vivacità ed energia, fu una cantante punk rock di successo, nonché attrice protagonista di una decina di film underground, ora tutti agli archivi del MoMa e del Whitney Museum. Ma per quanto ci riguarda lei ha lasciato l’impronta migliore come gallerista, molto ammirata anche da Leo Castelli (mi parlava con molta invidia del suo fiuto per il nuovo, dicendo anche che la differenza di età tra lei e lui, circa 50 anni, si avvertivano), perché con ottimo intuito, infatti lei diventò il riferimento di tutti i grafitisti (Futura 2000, LEE, Zephyr, Lady Pink), ma espose per prima anche Kenny Scharf, Jean Michel Basquiat, Keith Haring. La sua galleria, la Fun Gallery, lei mi diceva, deve presentare l’arte per tutti, deve decidere il pubblico chi è il migliore, non io. Infatti accanto a Basquiat tu vedevi il quadro di un artista sconosciuto e di passaggio che gli lasciava un’opera da esporre. Alla Fun Gallery non esistevano né censure né barriere. E Patti Astor, donna donna intelligente e interessante, trattava tutte le opere con lo stesso amore. Ma Patti, sempre alla ricerca del nuovo, dopo un paio di anni chiuse la galleria e si trasferì a Hollywood, dove scrisse e interpretò qualche film non commerciale. Perché Patti, la regina dell’underground ma anche dell’East Village, non voleva (o non riusciva?) ad entrare nel filone del cinema commerciale.
L’anno del miracolo è il 1982
Dunque l’anno del miracolo e della ripresa a Manhattan è il 1982. Fu anche l’anno della grande esplosione del quartiere che divenne in poche settimane, una attrazione culturale mondiale. Imprevedibilmente, improvvisamente e inspiegabilmente, l’East Village, quartiere depresso e derelitto, diventa il centro del mondo. Mi resi conto allora che solo in America possono accadere certe cose, dove la realtà può essere ribaltata da un giorno all’altro, il ricco diventare povero ma anche viceversa e un quartiere da periferia diventare l’ombelico del mondo. Gli artisti che avevano preso possesso del quartiere lo avevano in pochi mesi miracolato: ogni casa, ufficio, stanza, balcone, bassifondo erano diventati una galleria d’arte, uno studio a cielo aperto, un piccolo teatro di danza, una sala di musica, uno studio fotografico o grafico: ma tutti un centro di discussione permanente. E l’intero quartiere emanava una energia creativa e propulsiva palpabile che sprigionava giovinezza e gioia di vivere. Un quartiere curioso, forse un po’ eccentrico, un formicaio dirompente della creatività allo stato naturale, grazie anche ad alcune gallerie che avevano anticipato la moda e vi si erano stabilite, tra cui Pat Hearn, Vox Populi, Gracie Mansion, Nature Morte, International with Monument e soprattutto, come abbiamo visto, Patti Astor. Ogni spazio disponibile del quartiere, dalle abitazioni, ai bar, negozi, piccoli uffici, terrazzini, gabbiotti, esponevano arte. Un alveare con arte di ogni genere, dal tardo surrealismo alla pittura naif, dall’astrazione geometrica all’informale. Perché tutti gli artisti giovani, giovanissimi o adulti ma ancora in cerca di successo, si erano ritirati strategicamente per sopravvivere all’East Village. Un Aventino pieno di energie e che stava per esplodere, non implodere. Gracie Mansion aveva ritagliato la sua minigalleria nel bagno della propria abitazione. E le opere erano posate o appese alla finestra, alla porta, attaccate al soffitto, alla catenella del water e posate sullo stesso piano del water o dentro il lavandino (mancava il bidè per marcare in modo più specifico la mostra) per cui la visita diventava talvolta una sorta di gimcana per non sbaraccare un’opera. E noi tutti, silenziosi e raccolti come ad un pellegrinaggio da Padre Pio, a scrutare ogni centimetro della toilette di Grace (Mansion) in cerca di possibili capolavori. E ovunque, dentro e fuori le abitazioni, nei bar e sui marciapiedi, giovani che fumavano serenamente hashish, impregnando con l’odore tipico, tutto il quartiere. Addirittura, arrivando da Houston, l’odore dell’hashish ti avvolgeva sin dall’inizio della via.
L’East Village sulle prime pagine dei giornali
Ma intanto l’East Village si era guadagnato le prime pagine dei giornali e la nomination a quartiere della nuova creatività. Anche se i risultati potevano apparire modesti o velleitari, l’insieme era così vivace e folcloristico da suscitare l’interesse di tutti i curiosi dell’arte, sempre in attesa e in agguato di qualche novità. Ma la vera novità vincente e che giocò un ruolo determinante, fu che l’East Village restava aperto il sabato e la domenica, quando le altre gallerie erano chiuse. Il che permetteva a tutti i galleristi di Manhattan e ai loro assistenti con un po’ di curiosità, di peregrinare nell’East Village. Allora vedevi spesso Ileana Sonnabend e Leo Castelli, passeggiare insieme per il quartiere, osservando con attenzione e umiltà tutti gli spazi espositivi, (compresa la toilette di Grace) complimentandosi e incoraggiando galleristi e artisti. Era un momento quello di grande coralità, in cui tutte le gallerie di Manhattan, ma in particolare Leo Castelli, erano alla ricerca di qualcosa di nuovo, dopo l’ondata un po’ fredda e consumata dell’arte concettuale e minimal.
Invece l’East Village, con i suoi colori e i suoi mille e più pittori, scrittori, musicisti, da interno e da strada, sprizzava energia, colore, novità. Una nuova forma di produrre e presentare l’arte. Le decine di migliaia di visitatori del sabato e domenica, che formavano una lunga, interminabile coda, provenienti dall’Europa tutta, da New York e dalla provincia, potevano assaporare l’arte in tutte le forme espressive e portarsi a casa un’opera o un souvenir, spesso per pochi dollari. Ricordo che era una grande festa popolare per tutti e che ti faceva sembrare interessante anche ciò che non lo era. E moltissimi, noi compresi, ad acquistare della paccottiglia che una volta portata a casa e osservata bene la gettavi nel bidone della spazzatura. Ma eri anche tu contagiato dal sacro furore dell’arte e dalla sensazione di poter scoprire il nuovo Jasper Johns. La kermesse nell’East Village durò un paio di anni. E ricordo che gli appassionati d’arte e i curiosi di tutto, partivano espressamente dall’Europa, per vivere questa esperienza culturale entusiasmante per tutti.
Entra in scena Pat Hearn
Ma indubbiamente la galleria più professionale e bella, che poteva misurarsi con i più famosi spazi di Soho era quella di Pat Hearn, che Leo Castelli considerava più bella della sua (forse anche in omaggio alla bellezza di Pat Hearn, che Leo ammirava molto nel suo abbigliamento casual e un po’ grunge: ma si sa, Leo era un grande ammiratore della grazia femminile). Pat che pur non essendo glamour, si contendeva il primato del fascino femminile con Mary Boone a SoHo, simbolo invece del potere della donna di successo (purtroppo in questi giorni è nei guai con il fisco americano, a cui ha dovuto versare 19 milioni di dollari ma rischiando anche dai 3 ai 5 anni di prigione, che forse i suoi avvocati, dimostrando che il crimine è stato conseguenza di traumi dell’infanzia, riusciranno a evitarle la prigione chiedendo gli arresti domiciliari) in galleria aveva un gruppo di artisti promettenti, che reintroducevano una certa pittura figurativa o astratta leggera, spesso ironica (George Condo, David Bowes, Milan Kunc, Donald Baechler, Philippe Taaffe) in contrapposizione a quella greve e un po’ soffocante di Julian Schnabel: che però aveva sbancato New York dapprima con Mary Boone poi approdando alla Pace, la galleria nemica storica di Leo Castelli. Leo, nei nostri frequenti incontri mi parlava con grande rispetto di tutti, perché era un gentiluomo e per lui non esistevano nemici: solo quando si nominava Arne Glimcher, proprietario della Pace, si inalberava: perché mi raccontava gli aveva sottratto in modo un po’ fraudolento Rosenquist (che a me personalmente non sembrava una grave perdita ma per Leo invece fu una ferita insanabile). E Leo, correttissimo con tutti i suoi colleghi, mai uno sgarbo con nessuno di loro, non accettò questa intrusione, considerandola un crimine. E ora che Pace era riuscita a mettere le mani anche su Julian Schnabel, che Leo, malgrado il suo potere mediatico non era riuscito a catturare, il suo furore si trasformò in odio. Pat Hearn entrò, come sua abitudine in punta di piedi nella scena artistica di New York, ma ben presto con la sua pattuglia di giovani promettenti, in una New York in attesa del nuovo, si fece notare. Le sue inaugurazioni erano le più frequentate di Manhattane i suoi artisti considerati le nuove promesse della scena artistica. Ricordo che Helena Kontova, che seguiva da tempo attraverso Flash Art, gli artisti di The Pictures, detti anche “appropriatori di immagini”, organizzò una discussione storica nella sua galleria, Dalla critica alla complicità con Jeff Koons, Peter Halley, Haim Steinback, Meyer Veisman, Philippe Taffe, Sherrie Levine, a cui partecipò tutta la New York dell’arte. La discussione mise a punto il cambiamento in atto che stava spostando l’idea della criticità dell’arte, dalla appropriazione delle immagini verso il possesso dell’oggetto del desiderio. Moderatore Peter Nagy, artista e direttore della galleria Nature Morte, poi trapiantata in India. Fu una discussione accesa ed entusiasmante, a dimostrazione dell’impegno e del sacro furore che animava tutti quei giovani artisti alle loro primissime mostre. Ricordo ancora una frase topica di Jeff Koons in quella discussione, riportata poi in Flash Art: A me interessa raggiungere un pubblico generico riuscendo al tempo stesso a mantenere l’opera a livelli alti. Chiunque può arrivare alle mie opere provenendo da un livello medio di cultura. La sua lucidità e determinazione mi hanno sempre conquistato. Non ho mai conosciuto un artista che ha saputo costruirsi una carriera con tanta lucidità e intelligenza come lui. Anche se i grandi traguardi ottenuti (ad un certo momento è stato il più costoso artista vivente) non potranno essere mantenuti: sono curioso di vedere come affronterà la sua inevitabile decadenza.
Fine della seconda parte: a breve la terza parte, ancora sugli anni ‘80
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