Una poesia di Ungaretti ci introduce al rapporto tra istante e infinito, all’interno del quale si inserisce la bellezza. È forse vero che una bellezza meravigliosa, anche se ineffabile, può valere più di ogni altra cosa? Rispondono Yves Klein e la Nazionale di calcio della Jugoslavia.
All’infinito se durasse il viaggio.
Non durerebbe un attimo, e la morte
E’ già qui, poco prima.
Un attimo interrotto,
Oltre non dura un vivere terreno.
Giuseppe Ungaretti, Ultimi cori per la terra promessa
Talvolta un istante vale l’infinito e forse, come diceva Giuseppe Ungaretti, l’infinito se esistesse non sarebbe che un lungo interminabile istante. Un respiro così profondo da non riemergere più; oppure, ancora meglio, un salto liberatorio destinato a non rivedere terra. Nello spazio intangibile di questo momento sospeso capita di riscoprire l’entusiasmo, la meraviglia, l’occasione di stupirci e sentire ricrescere vita nella monotonia della quotidianità. È un sentimento così volubile e passeggero che talvolta lo crediamo inesistente, ma invece nasce spesso proprio sotto i nostri occhi: laddove ci imbattiamo nella bellezza.
L’ebbrezza derivata dall’incontro con la bellezza, qualsiasi cosa essa sia (e il dibattito si trascina fin dagli antichi greci), riempie così profondamente lo spirito da catalizzarne e attrarne tutto il desiderio. Un potere magnetico e ammaliante che deposita in noi la volontà di volerne ancora, così tanto da illuderci di poter fare a meno di tutto il resto. Tentazione tremendamente rischiosa dal momento che, come visto, il suo apice non dura che un attimo, lasciandoci poi solo una scia di profumo a tormentarci.
Umirati u lepoti, morire nella bellezza, dicevano addirittura gli Jugoslavi. Lo dicevano soprattutto gli appassionati di calcio – che al contrario di quello che la scuola est-europea può suggerire – ad un gioco duro e pragmatico preferivano di gran lunga lo spettacolo. Un calcio tecnico, estremamente votato all’estetica, dove la bellezza della giocata era in grado di oscurare le vittorie sportive che arrivavano con il contagocce. Nonostante le diverse finali o semifinali raggiunte (due volte eliminata alle semifinali dei mondiali, due volte sconfitta in finale all’europeo), sia dalla nazionale che dai club, il blocco Jugoslavo riuscì a conquistare nulla se non una vittoria nel 1991, proprio quando tutto sembrava ormai volgere al termine: una Coppa Campioni conquistata dalla Stella Rossa di Belgrado. Pochi successi, ma quanti campioni (Dragan Dzajic, Bernard Vukas, Robert Prosinecki, Dejan Savisevic), quanta classe, quanta eleganza, quanti colpi da occhi e bocca spalancati.
Stiamo parlando di sport, d’accordo, ma il sentimento estetico c’è ed è pervasivo. Come è altrettanto presente, se non ancora di più, all’interno di un’opera d’arte. C’è un sentore di verità rivelata quando di fronte a un dipinto, per esempio, si apre a noi una visione del mondo precedentemente non considerata, una prospettiva inedita in grado di modificare il nostro pensiero. In questo territorio astratto e di ribaltamento percettivo si eleva da una luccicante superficie marina la sagoma misteriosa di Yves Klein. Nato in Francia, ma allineato spiritualmente con la sensibilità orientale, ha inaugurato in campo europeo la tendenza artistica del monocromo. Dapprima arancioni, i suoi quadri di pura pittura si sono poi definitivamente fregiati dell’I.K.B. (International Klein Blue), cromia creata dallo stesso artista e caratterizzata da un blu luminoso e iconico. Nell’abbacinante splendore di queste opere criptiche e suggestive l’osservatore può immergere occhi e spirito. L’introspezione riflessiva, l’accrescimento dell’anima e la tensione verso l’assoluto sono le tappe di un’esperienza volta a miscelare arte e vita, a riconnettere l’uomo con una propria dimensione interiore.
Opere complesse che né oggi né al tempo hanno raccolto il totale favore di critici e interessati, destando l’esaltazione di alcuni e l’indifferenza di altri. È indubbio che eliminando gli agganci figurativi i riferimenti alla realtà siano venuti totalmente meno e all’interno del blu totale sia difficile trovare risposte. Laddove la logica è naufragata noi dovremmo fare altrettanto, cedendo le resistenze e provando ad allinearci con il sentimento che Klein intende risvegliare. I quadri blu sono componimenti immediati, che non necessitano di riletture o riascolti, sono versi diretti, travolgenti, irripetibili, tesi a rappresentare il puro avvenimento poetico. Sono il nocciolo dell’arte, l’angolo scoperto dell’essenza.
Come un meraviglioso tiro a giro che si spegne fuori dalla rete, anche le opere di Klein vivono di quell’esaltazione sospesa. L’anima della bellezza si esalta nell’inutilità, nel rinunciare alla funzione e alla finalità. Non importa se il tiro non è andato a segno, non importa se i fanatici della ragione di Klein proprio non coglieranno il senso, perché non è necessario. Nella bellezza possiamo morire, anche prima che questa acquisisca una logica: prima che il colpo raffinato diventi gol, prima che il monocromo guadagni ragione, prima che la Jugoslavia vinca un titolo, prima che Klein crescesse come artista (è morto a soli 34 anni). Il solo istante di illuminazione, gioia, meraviglia che il gesto tecnico, sportivo o artistico che sia, può concedere ripaga lo spirito di ogni necessità insoddisfatta della mente.
Inconsistente la nazionale di calcio della Jugoslavia, ineffabile il messaggio di Yves Klein. Ma che splendore. La bellezza è la nostra consolazione: ci porta oltre le miserie terrene, ci porta a svolazzare nell’immaginario reame del puro gesto eterno.