La 58^ Esposizione internazionale di Arte ha aperto i battenti l’11 maggio 2019 con una nuova partecipazione nazionale: lo stato del Ghana ha presentato il suo padiglione nella spettacolare cornice offerta dall’Arsenale di Venezia.
L’esposizione Internazionale di Arte è fin dalla sua prima edizione (1895) meta di prestigio per artisti internazionali e Paesi che cercano di esprimere la loro importanza in campo culturale. È questo il caso del Ghana, che insieme a Madagascar, Malesia e Pakistan, si presenta per la prima volta alla 58^Biennale con un proprio padiglione nella zona delle Artiglierie. Come ha sottolineato il presidente della Repubblica del Ghana, Nana Addo Dankwa Akufo-Addo, questo Paese è uno dei 7 stati africani partecipanti (gli altri sono Zimbabwe, Sudafrica, Madagascar, Egitto, Costa d’Avorio e Mozambico) e la scelta nasce dal desiderio di voler dare agli artisti uno spazio per mostrare le loro opere e ragionare a livello mondiale su quello che sta succedendo nel loro paese. Il filo rosso che unisce tutti i sei artisti partecipanti è l’analisi del concetto di libertà che la nazione sta vivendo dal punto di vista artistico e delle varie traiettorie che gli artisti stanno perseguendo, trattando temi come la politica, il colonialismo e l’essere ghanesi.
L’esposizione Ghana Freedom, il cui nome è preso da una composizione che E.T. Mensah ha scritto alla vigilia dell’indipendenza del Ghana (1957), è stata curata da Nana Oforiatta Ayim, scrittrice, storica dell’arte e regista ghanese. La struttura del padiglione porta la firma dell’archistar David Adjaye.
La struttura del padiglione ricorda una tipica casa africana, con i muri di fango e paglia e grossi pali centrali che sorreggono l’intera struttura. Un dedalo di stanze completano la sensazione iniziale di trovarsi in un posto completamente diverso da quello a cui siamo abituati. Davanti alla nostra vista si palesa subito la prima installazione dell’artista Ibrahim Mahama, una parete di scatole di legno coperte da griglie di ferro a maglie strette. La struttura ricorda i silos di cacao (soggetti di una ricerca fotografica dedicata all’architettura in degrado) che in una delle ultime spedizioni hanno innescato nell’artista una connessione tra le grate formate dallo scheletro delle strutture e le griglie che le donne ghanesi usavano per la cura e l’essiccazione del pesce. Questo collegamento porta Mahama a ragionare sul concetto di modernità e sull’impatto che questa comporta per il popolo del Ghana (nel caso del pesce il riferimento è legato alla presenza di nuove tecnologie per lo stoccaggio e all’apertura delle acque ad altri Paesi). L’intento dell’artista è di estendere il ragionamento a ogni spettatore, ma questo è difficile dalla mancanza del collegamento diretto tra le grate e le fotografie dei silos (non presenti nell’esposizione).
Le stanze adiacenti sono occupate da due video-artisti: Selasi Awusi-Sosu e John Akomfrah. Il primo artista propone una video-installazione a tre schermi in cui ci propone un visita a una vetreria voluta dal primo presidente del Ghana nel 1966 per produrre fogli di vetro. Oggi la fabbrica è abbandonata ma l’artista la fa rivivere attraverso video con manipolazioni digitali che ripropongono i lavoratori mentre utilizzano antiche tecniche di lavorazione del vetro, oggi considerate obsolete. Un terzo video propone un’analisi approfondita della struttura della bottiglia. Alcune bottiglie compaiono anche in un lato della stanza, ammassate in ordine e con un velo di polvere, quasi a testimoniare la fine stessa della fabbrica.
John Akomfrah propone un’unione di diversi spezzoni di filmati accompagnati da stralci di conversazioni, utili ad analizzare la storia che ha caratterizzato il Ghana prima e dopo la sua indipendenza. In questo video a tre canali Akomfrah unisce le immagini delle comunità caraibiche che si sono ribellate alla schiavitù, lo sterminio degli elefanti africani ai soldati e al nuovo Ghana, che diventa testimone del genocidio umano e culturale del paese ma reclama con forza una nuova potenza artistica che sta nascendo.
Il viaggio continua con i quadri della pittrice Lynette Yiadon-Boakye, considerata una delle artiste più importanti della sua generazione. I suoi soggetti sono tutti uomini e donne di colore impegnati in azioni quotidiane, capaci di creare un mondo altro in cui l’uomo bianco non trova posto. Questa scelta nasconde non solo il suo retaggio familiare (i genitori sono ghanesi) ma è anche un desiderio di non trattare l’uomo di colore come l’altro, crendo un mondo nuovo dove l’uomo bianco non trova posto.
Un’altra stanza accoglie le fotografie di Felicia Abban, che ritraggono donne durante il periodo coloniale e dopo l’indipendenza del Ghana, ritratto della nazione del periodo. Questo studio diventa un modo per mostrare la versione migliore dell’essere “ghanese” attraverso l’uso sia di abiti tradizionali e che di abiti europei, che testimoniano il desiderio di rinnovamento e modernismo cercato da questo stato.
Chiudono il padiglione le enormi “coperte” di El Anatsui, create con tappi di bottiglia schiacciati a formare dei tasselli e uniti tra loro da fili di rame. La scelta dei materiali rimanda a un passato non ancora dimenticato: i tappi infatti riportano alla memoria le bottiglie di liquore ottenute in cambio degli schiavi ghanesi. La trama di fili di rame crea delle cicatrici che uniscono il continente africano al resto del mondo ma allo stesso tempo ne testimoniano l’unicità perchè ancora ben visibili.
La prima esperienza del Ghana in questa Biennale testimonia la forza di un Paese giovane in campo politico e artistico, forza che si palesa in scelte tematiche importanti e strettamente legate all’interesse di dimostrare il suo valore come possessore di una cultura che non ha nulla da invidiare agli stati europei. L’intento di ogni artista è quello di dare una rilettura del passato, prendendo a piene mani l’identità frammentaria del Paese e cercando di ricompattare tutti i pezzi, riuscendoci egregiamente in Ghana Freedom. Alcuni elementi risultano estranei ai visitatori, ma il punto di forza del padiglione è stimolare la curiosità innata che ciascuno ha dentro e dare la spinta per iniziare un viaggio personale all’interno della storia a tratti buia di questo Paese.