L’angolo più bello e interessante di Artissima 2019 (svoltasi dall’1 al 3 novembre) si trovava nello stand della Galleria Lia Rumma. Cinque opere totalmente dissimili tra loro si sono incontrate per narrare la tragica morte di Pier Paolo Pasolini.
La mattina dell’1 novembre 2019 apriva l’edizione numero 26 di Artissima, a Torino; la notte dello stesso giorno del 1975 Pier Paolo Pasolini veniva brutalmente assassinato, appena fuori Roma. I due eventi sembrano totalmente slegati fra loro, ma un angolo della fiera – la più importante sull’arte contemporanea in Italia e ormai chiusa da qualche giorno – ne svela la particolare connessione. Quest’angolo compariva piuttosto presto all’interno del labirinto fieristico, quando dirigendosi subito verso la parte destra del padiglione si entrava, invitati da due opere di Vincenzo Agnetti, nello stand della Galleria Lia Rumma.
Giunti in fondo all’esposizione curata dall’artista Alfredo Jaar per la Galleria, l’atmosfera concettuale e delicata dell’accostamento delle opere sembrava trasportarci a quell’alba triste silenziosa, quando il poeta e regista italiano fu trovato senza vita nel mezzo di un campetto da calcio sul lungomare di Ostia (RO). Cinque opere totalmente differenti tra loro, di artisti diversi, realizzate ad anni di distanza le une dalle altre, pensate inizialmente lontane da questo intento comunicativo si sono ritrovate, per mezzo di una felice riflessione curatoriale, a concorrere nella costruzione di uno stand che assomiglia a un testo poetico. Jaar ha dunque estratto e ricontestualizzato i lavori, costruendo attraverso essi una nuova grande opera dedicata a Pier Paolo Pasolini.
La chiave di lettura iniziale la dà William Kentridge, il cui disegno campeggia sopra agli altri in cima alla composizione. The Death of Pier Paolo Pasolini raffigura, come dice il titolo, il corpo esanime del poeta. Girato sulla pancia, giace sbattuto a terra con il volto nascosto e nel tratto nervoso e frenetico che lo delinea si rintraccia la violenza dell’atto consumato. Non sono ancora chiare, e probabilmente mai lo saranno, le circostanze della sua morte: forse un furto, forse un incontro amoroso finito male, forse un omicidio politico, sicuramente una tragedia. La ferocia dell’aggressione ha lasciato ferite profonde, la macchina che successivamente l’ha investito ha invece definitivamente appiattito la sua umanità. Proprio questo sentimento di abbandono, di dimenticanza, di desolazione, di indifferente sofferenza e interminabile domanda anima il lavoro in bianco nero di Kentridge.
Cosa manca in questo opaco ritratto di morte? Il sangue. Quello già rappreso intorno alle ferite, quello ancora umido intorno al corpo, quello che ancora gocciolava e quello che già si allontanava verso il mare come un fiume nel delta. Ecco allora che, sotto il disegno, troviamo un neon rosso di Joseph Kosuth che riporta la scritta Red. Semplice, pulito, versatile: le tre lettere completano silenziosamente la scena, condensando nella loro immediatezza tutto il sangue assente nel disegno.
Sotto di questo è lo stesso Pasolini, attraverso la scritta in acciaio di Marzia Migliora, a prendere la parola: Forse sono io che sbaglio. Ma io continuo a dire che siamo tutti in pericolo. La frase è stata pronunciata dallo stesso poeta proprio la mattina dell’1 novembre e ha assunto perciò una sinistra connotazione profetica. Nel gioco della decontestualizzare e ricontestualizzare, possiamo però osare nel dire che la citazione potrebbe riferirsi, più generalmente, alla minaccia consumistica e la deriva culturale che l’intellettuale ha denunciato per tutta la vita. Questa lettura sembra rafforzata dall’opera che le sta di fronte, ovvero la fotografia di uno strano banchetto orchestrato da Vanessa Beecroft. I soggetti ritratti siedono a una tavola imbandita e sovraesposta, carica di cibi e di lussi che per gran parte andranno sprecati. Forse un grottesco esempio della vertigine consumistica, portata all’estremo in un fastoso simposio di cui nemmeno si riesce a godere, che si collega alla crociata pasoliniana contro i nuovi costumi. Sicuramente il rosso dilagante – i vestiti dei commensali, i dettagli della tavola, i condimenti delle pietanze – riporta nuovamente al sangue assente; assente come la verità sulle circostanze della morte, le quali misteriosamente, come il rosso nelle opere attigue, tornano all’improvviso a chiedere chiarezza.
Ad assistere alla scena, poeticamente ricreata da questi accostamenti inediti e precisi, c’è Maria Callas. La cantante lirica, ritratta fotograficamente da Ugo Mulas, osserva da entrambi i lati lo svolgersi della vicenda. Anche in questo caso le immagini sono state tratte da alcuni scatti realizzati durante le riprese del film Medea, poi decontestualizzate e inserite nel nuovo ambito. Lo stupore, la paura e la sofferenza delle espressioni della Callas si intonano però perfettamente al dramma in atto davanti a lei. L’accostamento giova inoltre anche di un appiglio dalla realtà: Pasolini e la Callas, infatti, si conoscevano; avevano collaborato durante le riprese della Medea (lei attrice, lui regista) sviluppando un’intesa che, nonostante lo scetticismo iniziale, crebbe sempre più.
L’insensata morte di Pier Paolo Pasolini è così restituita in un concerto di opere denso di senso (e cromaticamente armonico nell’alternanza grigio-rosso), capace di evocare con silenziosa potenza l’irrisolto dramma del poeta assassinato.
«La sua fine è stata al tempo stesso simile alla sua opera e dissimile da lui. Simile perché egli ne aveva già descritto, nella sua opera, le modalità squallide e atroci, dissimile perché egli non era uno dei suoi personaggi, bensì una figura centrale della nostra cultura, un poeta che aveva segnato un’epoca, un regista geniale, un saggista inesauribile.»
Alberto Moravia, Un poeta e narratore che ha segnato un’epoca