Il Museo del Prado di Madrid festeggia i 200 anni dall’apertura con una mostra eccezionale: un focus sulla grafica di Francisco Goya, con oltre 300 disegni provenienti dalla collezione del museo e da prestiti privati.
Un’occasione unica per ammirare la perizia grafica di un maestro dell’arte spagnola. Esposta anche la corrispondenza completa con l’amico d’infanzia Martín Zapater. Fino al 16 febbraio 2020.
Un percorso cronologico dal 1771 al 1828 racconta Francisco Goya y Lucientes (1746-1828) dal punto di vista della sua produzione grafica. Per la prima volta sono esposti insieme 300 disegni dai quali, più ancora che dai dipinti, si può apprezzare il talento di un artista capace di narrare, con spagnolesco fatalismo, ma anche con senso moderno della realtà, il “gran teatro della vita”; opere dalle quali si scopre un efficace narratore alla stregua del londinese William Hogarth, di cui però non possiede il cinismo di stretta matrice britannica. Le sue incisioni sono scene teatrali che enfatizzano pensieri e sensazioni, e saranno poi fonte d’ispirazione per gli studiosi di fisiognomica, ma anche per la cinematografia di Kubrick; oltre a ciò, il loro intento è documentaristico e in parte anche accusatorio dei vizi del popolo, della degradazione sociale causata dall’alienazione conseguente alla rivoluzione industriale.
Nello sguardo di Goya, invece, si può invece leggere una certa pietà e comprensione: mendicanti, storpi, buffoni, girovaghi, vengono ritratti con rispetto, con partecipazione della loro pena e, spesso, con una commovente espressione di accettazione della loro condizione: un mesto sorriso che sembra racchiudere un opaco arcobaleno. La Spagna dell’Ottocento era ancora un Paese povero, dove i contrasti fra classi sociale erano molto stridenti. Pur avendo occasionalmente disegnato anche gli aristocratici, la simpatia di Goya va ai poveri e al popolo, egli stesso, in un certo senso, coltiva simpatie che potremmo definire socialiste ante litteram, rifiuta l’oppressione e ne darà conto anche in dipinti come Il 3 maggio 1808, che denuncia le atrocità degli occupanti francesi. E ancora, è partecipe delle sofferenze del popolo, che siano per le frequenti carestie, per gli abusi delle autorità durante le epidemie di vaiolo o colera, per quelle morti troppo spesso non consolate. C’è, insomma, una denuncia sociale che, pur non in maniera troppo esplicita, parla contro il governo monarchico spagnolo.
Anche il mondo femminile, delle popolane e delle prostitute in particolare, appare spesso nell’opera di Goya, che coglie momenti di intimità domestica, di socializzazione o di umili lavori quali la pulizia della casa o prendere l’acqua al pozzo. A tratti, emergono ispirazioni al disegno cinquecentesco di matrice veneta, che confermano l’attento studio del passato da parte di Goya; sotto altri aspetti, il suo stile è più drammatico, pur nel dinamismo del tratto che non sempre indulge sui particolari.
Dall’altro lato, si scopre un Goya intriso d’Illuminismo, affascinato dalla sua metaforica capacità di rischiarare il cammino dell’umanità: tante sono le sue allegorie contro l’ignoranza, il vizio, il fanatismo anche religioso. Celebre, Il sonno della ragione genera mostri, del 1799, che anticipa di un secolo il simbolismo di Odilon Redon: scene a tratti terrificanti, moralmente quanto visivamente, che contengono al fondo, ancora, la metafora della sofferenza dell’uomo causata dall’uomo, lo sfruttamento delle donne e le violenze su di loro commesse: disegni antichi di due secoli, eppure tragicamente attuali, a dimostrazione che l’Illuminismo non ha messo troppo profonde radici nell’animo e nella mente dell’uomo, che ancora la ragione continua a sonnecchiare lasciando campo a istinti bestiali e violenti.
Intriso di mitologia, invece, lo sguardo con cui affronta le scene allegoriche della Tauromachia, introdotta in Spagna dai conquistatori arabi: gli anacronismi nelle vesti passano in secondo piano, Goya essendo interessato principalmente a rendere il violento realismo del confronto fra uomo e animale, fra uomo e natura, fra uomo e divinità. Quasi mai nelle tauromachie di Goya si vede il pubblico, se ne intuisce soltanto la presenza lontana quando le tribune vengono accennate con rapidi tratti di pastello. In quella solitudine del torero e del toro nel recinto, l’inevitabilità di un combattimento che si concluderà quasi con la morte dell’animale, altre volte con quella del torero. Sembra di cogliere quell’atmosfera sospesa tanto cara a Ernest Hemingway, e ancora una volta emerge il Goya attento e curioso osservatore dell’individuo, con le sue aspirazioni, le sue paure, le sue miserie e le sue eventuali illuminazioni.